Dopo la decisione di Marco Sica, partner di Bonelli Erede Pappalardo di rifondare la sua boutique a partire dal prossimo luglio, si apre il dibattito sulla difficoltà degli amministrativisti a operare nelle boutique. Secondo il legale se ci si forma da giovani in una law firm è facile assorbirne le abitudini, ma chi cresce nel piccolo team, se non è predisposto ad accettare il sistema di lavoro della grande struttura, non riesce ad amalgamarsi nel gruppo.
Gli amministrativisti più noti nel settore del contenzioso, nel momento in cui entrano in una law firm si attendono un tornaconto in termini di volume d’affari, che arrivi dal network, tale da sopperire alla quota che il professionista paga alla struttura. Se il capo di una boutique fattura 100mila euro, il 60-70% di quella somma diventerà suo reddito; se un partner fattura la stessa cifra in una firm, solo il 30-40% gli ritornerà in tasca. È ovvio che il rainmaker amministrativo si aspetti dall’ingresso in una law firm un aumento del volume d’affari stimato almeno sul 30% (130mila euro ad esempio). In caso contrario è probabile che dopo qualche tempo se ne torni a lavorare in proprio.
Secondo Simona Viola (in foto), partner della boutique milanese Bucello Croci Piscitelli Viola, il lavoro dell’amministrativista funziona meglio in autonomia per via dell’eccezionalità delle circostanze che portano il cliente a rivolgersi all’avvocato. «L’azienda che si rivolge all’amministrativista lo fa solo in circostanze eccezionali», dice Viola, «cioè quando incontra ostacoli nel rapporto con la pubblica amministrazione. Siccome il suo ricorso all’avvocato è episodico, è presumibile che non abbia avuto il tempo per instaurare una relazione confidenziale con lo staff del partner, e che richieda una maggiore cura e un’attenzione». Ulteriori approfondimenti nel numero di aprile delle rivista TopLegal.
