I riflettori nuovamente puntati sul caso dei marò, i fucilieri italiani accusati di aver ucciso due pescatori al largo delle coste indiane, hanno riacceso il dibattito sull’arbitrato internazionale. Mentre mancano poche ore all’udienza nella quale la Suprema Corte indiana dovrebbe formalizzare i capi d'accusa, Tullio Treves, ex giudice della Corte di Amburgo, ha suggerito sulle pagine di TopLegal il ricorso allo strumento arbitrale, nel quadro della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare.
Lo stesso Treves, attualmente of counsel di Curtis Mallet-Prévost Colt & Mosle, è stato chiamato due anni fa dal governo Monti quale consulente per fornire un parere sulla vicenda. Incarico che ha dovuto rifiutare, essendo l’India nel parco clienti di Curtis. Treves non è l’unico professionista ad aver dovuto fare i conti con possibili conflitti d’interessi. Lo stesso problema, infatti, ha spinto Luca Radicati di Brozolo a lasciare lo scorso giugno Bonelli Erede Pappalardo per costituire una propria boutique specializzata in arbitrati, creando un precedente nel mercato legale italiano. Se la boutique di Radicati di Brozolo è un unicum nel Belpaese, lo stesso non può dirsi all’estero, dove le piccole realtà arbitrali sono in crescita.
Recente la notizia della costituzione di una boutique nata come spin off da Freshfields, primo studio al mondo nelle classifiche tra gli operatori di artitrato. La nuova realtà ha visto unirsi Costantine Partasides, capo della practice a Londra, Georgias Petrochilos, socio con sede a Parigi, e Jan Paulsson, che ha guidato il gruppo di arbitrato internazionale per vent'anni. Questa fuga verso la boutique segue altri esempi: gli ex di Shearman & Sterling Christophe Dugue e William Kirtley alla fine dell'anno scorso hanno formato Dugue & Kirtley; mentre Christophe Seraglini e Jean Georges Betto, partner rispettivamente di White & Case e Hogan Lovells, hanno costituito Betto Seraglini.
Troppi gli esempi per poter parlare solo di conflitto d’interesse. Oltre l’etica c’è di più: una marginalità ben 7 volte superiore a quella ricavata da un contenzioso. Inoltre, in Italia il momento sembra particolarmente propizio. Non soltanto perché – merito della spinta all’internazionalizzazione della Camera arbitrale di Milano – aumentano gli arbitrati gestiti sul nostro territorio, ma anche perché sempre più pezzi italiani volano all’estero. E le grandi multinazionali straniere sono ben poco disposte a confrontarsi con i limiti della giustizia ordinaria tricolore.
Inoltre, a differenza di quanto avviene in altre nicchie anticicliche, la remuneratività della practice si accompagna a un vantaggio senza precedenti: l’arbitrato internazionale è un mercato mondiale. E un business senza frontiere può essere vantato da ben pochi professionisti italiani. Chissà, quindi, che dopo il labour, il restructuring e l’amministrativo, il nuovo territorio da esplorare in solitaria per il mercato legale italiano sia l’alterative dispute resolution. Anche, qui, però tutto si giocherà tra chi avrà saputo attrezzarsi in tempo per essere competitivo sul mercato internazionale.
Maria Buonsanto
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