L’esponenziale aumento dei prezzi delle materie prime, determinato inizialmente dalla emergenza pandemica da Covid-19 (e, segnatamente, dalle difficoltà di approvvigionamento conseguenti alle limitazioni alla circolazione imposte per il contenimento della pandemia) e successivamente dal conflitto Russia – Ucraina, tuttora in corso, ha nuovamente posto all’attenzione degli operatori economici e di diritto le sorti dei contratti ad esecuzione continuativa, periodica (c.d. contratti di durata) o differita nei quali, in virtù di un mutamento esterno del tutto eccezionale e imprevedibile del rapporto, la composizione dei reciproci diritti ed interessi così come raggiunta al momento della stipula si alteri al punto da determinare un significativo squilibrio tra le parti.
È circostanza nota che già nel corso dell’emergenza pandemica i prezzi di materie prime strategiche abbiano registrato notevoli aumenti rispetto a quelli praticati nel periodo antecedente alla pandemia da Covid-19 e che l’inizio dei conflitti tra Russia e Ucraina abbia determinato ulteriori significativi aumenti dei prezzi. Pur non essendo oggetto immediato di questa breve trattazione, vale certamente la pena accennare al fatto che la situazione italiana si differenzia da quella degli altri paesi europei per il fatto di dipendere, in modo importante, dalle forniture estere, in particolare da quelle russe, sia per quanto concerne il gas naturale, fondamentale fonte di energia elettrica nel nostro paese, sia per altre materie prime essenziali per la produzione in svariati settori (dalle automobili agli arredi).
Per far fronte al suddetto aumento dei prezzi ed in particolare, per far fronte alle difficoltà di approvvigionamento direttamente conseguenti alla crisi ucraina, il Consiglio dei Ministri ha approvato nei giorni scorsi il decreto legge n. 21 del 21 marzo 2022 con il quale ha introdotto misure di sostegno per contrastare gli effetti economici e umanitari del conflitto, tra le quali la riduzione delle accise sulla benzina e sul gasolio impiegato come carburante, i piani di rateizzazione e i crediti di imposta per le imprese, nonché ulteriori presidi volti a limitare i prezzi dell’energia.
Sebbene il Governo con il proprio intervento abbia fornito un importante supporto per contenere le immediate conseguenze negative dell’aumento dei prezzi, ed in particolare di quelli dell’energia elettrica, è da ritenere che dette misure esplichino i loro effetti positivi principalmente nel breve periodo, lasciando tutto sommato aperto il tema in ordine alle sorti dei rapporti contrattuali di durata, ed in particolare di quelli sui quali incidono non solo i maggiori costi per l’energia, ma anche la revisione al rialzo del valore delle materie prime. Si pensi alla vendita di un immobile da costruire (accompagnata magari dalla sottoscrizione di un preliminare di compravendita che abbia fissato il prezzo di acquisto), ai contratti di fornitura di prodotti (alimentari ma non solo) per la grande distribuzione, ma anche ai contratti di lavoro per i quali è prevista una componente variabile della retribuzione, calcolata in misura percentuale sul fatturato, per i quali si assiste ad un aumento del costo del lavoro determinato della revisione al rialzo dei prezzi finalizzata a compensare (in tutto o in parte) l’aumento del prezzo delle materie prime e dell’energia (e quello che esce dalla porta finisce per rientrare dalla finestra, anche in misura maggiorata, considerando che la retribuzione variabile, in quanto componente ordinaria, “sconta” normalmente contribuzione e tassazione).
Come accennato, già durante l’emergenza sanitaria da Covid-19 il tema è divenuto di stretta attualità, e si è aperto un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale essenzialmente legato alla possibilità o meno di ravvisare, nel nostro ordinamento, la presenza di un obbligo di rinegoziazione del contratto divenuto squilibrato mentre è ancora in corso la sua esecuzione (o quando la sua esecuzione non è ancora iniziata). Ebbene, pur se in un contesto nazionale ed internazionale evidentemente mutato (la pandemia parrebbe volgere al termine, mentre non ci sono al momento certezze sulla fine del conflitto Russia – Ucraina e sul nuovo assetto che ne conseguirà) le riflessioni fatte nel corso dell’emergenza sanitaria sono sicuramente un’ottima base di partenza per fornire assistenza – ex ante o ex post- nella individuazione della soluzione più soddisfacente (o meno impattante) per quegli imprenditori ed operatori economici che oggi si trovano a dover fare i conti con l’aumento delle materie prime e che, nello squilibrio del rapporto, hanno visto peggiorare la propria posizione contrattuale.
Così il tema della sussistenza o meno di un obbligo (giuridico) di rinegoziazione potrebbe non doversi porre laddove le parti decidano di prevedere sin da subito quale sorte far seguire al contratto al verificarsi di eventi (straordinari) mediante l’inserimento nel contratto delle c.d. hardship clauses, ovvero quelle specifiche clausole con cui si regolano anticipatamente le sorti del contratto nelle ipotesi in cui si verifichino circostanze tali da comportare una sostanziale alterazione dell’equilibrio del rapporto contrattuale. Ovviamente, l’effettiva utilizzabilità di questa soluzione (limitata ai soli rapporti non ancora iniziati o in fase di rinnovo) dipende molto anche dal “peso” contrattuale del contraente che si cerca di tutelare attraverso il meccanismo di regolazione pattizia.
In mancanza di una siffatta clausola nei contratti già efficaci o in corso di esecuzione, gli strumenti a cui le parti potranno invece ricorrere sono quelli offerti dal codice civile che, superando la generale regola di irrilevanza delle eventuali sopravvenienze nei rapporti tra le parti (pacta sunt servanda), offre alcuni rimedi c.d. di ultima istanza, quali la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta totale (ex art. 1463 c.c.) o eccessiva onerosità sopravvenuta con facoltà di chiedere la rinegoziazione attribuita al solo contraente nei confronti del quale la risoluzione è domandata (ex art. 1467 c.c.) , nonché la risoluzione per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione (ex art. 1464 c.c.), ove si conferisce alla parte diversa rispetto a quella colpita dalla sopravvenienza il diritto di recedere dal contratto solo ove non abbia interesse ad accettare un adempimento parziale della controprestazione, mantenendone invece la capacità di produrre effetti per la parte tuttora eseguibile.
Gli anzidetti rimedi giuridici, si è notato durante la pandemia e se ne deve prendere atto tuttora, non parrebbero però prendere in considerazione l’interesse di quella parte che, penalizzata dall’esecuzione del contratto alle condizioni originarie, vorrebbe far salvo il rapporto, rinegoziando con l’altro contraente le (sole) pattuizioni che creano lo squilibrio contrattuale; se si esclude la disciplina dedicata a specifiche tipologie contrattuali, e perciò di difficile applicazione analogica, non c’è nel nostro ordinamento una disposizione che espressamente pone a carico delle parti un onere generale di rinegoziazione dei contratti (a differenza di quanto è avvenuto in diversi ordinamenti stranieri e di quanto statuito delle fonti sovranazionali).
Per supplire a questa mancanza, non solo la dottrina e la giurisprudenza di merito, ma addirittura la Corte di Cassazione, nell’esercizio della sua funzione nomofilattica, sono intervenute per verificare se sia possibile ricavare un siffatto onere dal rispetto di prescrizioni – quelle sì espresse – comunque già presenti nel nostro ordinamento. E proprio la Suprema Corte, con la Relazione tematica n. 56 dell’8 luglio 2020 dedicata alle novità normative sostanziali del diritto “emergenziale” anti-Covid in ambito contrattuale e concorsuale, ha ravvisato nella buona fede contrattuale (principio codificato e con forza cogente) la ragione giustificatrice di un obbligo legale di rinegoziazione, prevedendo altresì che, in determinate circostanze, le parti possano agire giudizialmente nel caso in cui una parte non ottemperi al predetto obbligo.
Sebbene l’intervento della Corte di Cassazione abbia dato rilevanza al fondamentale principio di buona fede per giustificare la necessità di rinegoziare i contratti, non si può ignorare che la tesi portata avanti dalla Corte non abbia convinto tutti gli operatori, potendo la violazione dell’onere di rinegoziazione come espressione del più generale principio di correttezza e buonafede dare, al più, luogo ad una tutela risarcitoria in favore della parte che aveva interesse alla rinegoziazione, piuttosto che ad una esecuzione in forma specifica con diritto della parte penalizzata di agire in giudizio per ottenere, ricorrendone i presupposti di fatto, un adeguamento del contratto al mutato contesto. Non pare peraltro essere stato affrontato dalla Corte il tema degli effetti di un consenso alla rinegoziazione che sia meramente formale, non accompagnato da una reale volontà di valutare la sussistenza delle condizioni per un nuovo assetto di interessi. Tale orientamento deve tuttavia confrontarsi con la diversa posizione assunta dai tribunali di merito nel periodo Covid, a partire dalla nota ordinanza 27 agosto 2020 del Tribunale di Roma, i cui dettami sono stati poi fatti propri da vari giudici su tutto il territorio nazionale, secondo la quale spetta alla parte legittimata alla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta il diritto di optare per una rinegoziazione finalizzata alla conservazione con equa rettifica delle condizioni contrattuali, con la conseguenza che – come effettivamente avvenuto a Roma – laddove le parti non provvedano a raggiungere un accordo in autonomia la riduzione ad equità debba essere realizzata dal Giudice ex officio.
Non si può inoltre ignorare che, in alcuni rapporti, la situazione di sostanziale squilibrio deve essere inserita nel più ampio complesso di tutele che l’ordinamento riconosce in favore del contraente che, nel caso specifico, non è il soggetto che patisce lo squilibro: è il caso, appunto, dei rapporti di lavoro nei quali la retribuzione è (in tutto o in parte) determinata in misura variabile a percentuale sul fatturato, ove da un lato abbiamo un contraente debole ex lege (il lavoratore) e dall’altra abbiamo un contraente indebolito dalla situazione contingente. In questo caso, tendenzialmente, entrambe le parti potrebbero avere interesse al mantenimento della relazione contrattuale, e quindi la rinegoziazione dovrebbe trovare la disponibilità (reale e non solo formale) delle parti a prescindere dalla sussistenza dell’obbligo, tuttavia occorrerà prestare particolare attenzione ai termini della rinegoziazione (per evitare che una più o meno momentanea difficoltà del datore di lavoro comporti un trattamento sostanzialmente e complessivamente peggiorativo per il lavoratore) e alle modalità della stessa, con eventuale coinvolgimento di terzi soggetti (come le rappresentanze sindacali aziendali, ove presenti, o le OO.SS.).
Fondamentale, nel quadro appena delineato, risulta essere quindi il supporto del professionista che sappia comprendere appieno le esigenze del cliente di breve e medio periodo e consigliarlo nella adozione della strategia maggiormente confacente al perseguimento di obiettivi concreti evitando, ove possibili, contrapposizioni con la controparte non utili al perseguimento del fine ultimo, ovvero la prosecuzione delle attività a condizioni economicamente e giuridicamente accettabili.
Il nostro Studio ha maturato una consolidata esperienza nel settore della contrattualistica, sia nell’interesse di persone fisiche che persone giuridiche, ed è in grado di offrire al cliente il supporto necessario nell’ambito della predisposizione, analisi e gestione dei rapporti contrattuali interessati dai temi sopra esaminati.
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