Agli avvocati d’impresa può capitare di dimenticare di appartenere a una “categoria”. La professione legale italiana, oggi più che mai, è priva di coesione e ci si è abituati a guardare da lontano il mondo forense, rimasto indietro rispetto ai tempi. Il nuovo capitalismo cognitivo e non più industriale nato negli anni Ottanta, per cui i servizi diventano elemento costituente dell’economia, crea una domanda di professionalizzazione nuova e diversa.
Questa profonda trasformazione è stata tralasciata da gran parte dell’avvocatura italiana, rimasta aggrappata ai suoi vecchi schemi che fanno riferimento a un apparato giudiziario inflessibile, inefficiente e poco sensibile alle esigenze dell’economia e della finanza globalizzata. TopLegal si occupa solo di rado dell’istituzione dell’avvocatura e dei suoi legami all’organismo politico e sociale. Riteniamo però che sia opportuno tornare sull’argomento per due motivi. Primo, come affermava il giurista Giuseppe Zanardelli, ogni avvocato dovrebbe portare la propria attenzione su tutti gli interessi e tenere gli occhi aperti su tutti gli abusi, specie quelli che lo riguardano da vicino. Secondo, la scontata distanza tra istituzioni forensi e le law firm si sta accorciando a danno di queste ultime, causa una frattura incolmabile tra la rappresentanza e la base all’interno del mondo forense.
La causa immediata di questa spaccatura è sotto gli occhi di tutti: la crisi del reddito degli avvocati. Gli effetti di questa crisi potrebbero essere tanto più insidiosi per gli avvocati d’impresa poiché si intravedono di meno. Secondo gli ultimi dati della Cassa forense relativi al 2015, il 64,4% degli iscritti guadagna in media meno di 20.071 euro. Il 44,5% guadagna meno di 10.300 euro. Tra il 2008 e il 2014, il reddito professionale è crollato del 29% e il fatturato Iva del 27,5%, colpa della recessione che ha portato un drastico calo degli affari e clienti morosi o restii a esporsi a cause con tempi e costi incerti.
Dalla base dell’avvocatura, schiacciata dalla burocrazia, dal fisco e dalla precarietà, arrivano rivendicazioni variegate. Alcune condivisibilissime, come quelle contro le iniquità del sistema previdenziale e l’affidamento dei servizi legali con aggiudicazione al massimo ribasso; altre meno, come il diritto assoluto di entrare nell’avvocatura per esempio, poiché in contrasto con qualsiasi principio dell’economia di mercato.
A marzo il ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva annunciato una proposta di legge sull’equo compenso per contrastare lo strapotere dei cosiddetti “clienti forti” (banche, imprese, assicurazioni) che impongono l’accettazione di compensi irrisori agli avvocati, soprattutto ai giovani. Misura ritenuta tardiva da una parte cospicua degli avvocati interessati che accusa proprio la politica e il Cnf, che ha appoggiato la proposta di Orlando, di aver ridotto l’avvocatura in rovina.
Le divisioni all’interno dell’avvocatura italiana sono comuni ma dovrebbe fare riflettere l’avvio di due nuove associazioni, che hanno dichiarato l’aperta sovversione allo stato di cose.
Grazie alla prima, l’Associazione nazionale forense a.m.b., dove a.m.b. sta per avvocatura medio-bassa, prende forma una nuova categoria nella categoria attorno a cui si può concentrare la rivolta. Anche alla seconda associazione, la Nuova Avvocatura Democratica (Nad), si deve un nuovo bersaglio, l’avvocato istituzionalizzato, difensore degli interessi dell’apparato istituzionale forense. Secondo il Nad, il sistema forense rappresenta un gigantesco schema Ponzi che coopta migliaia di giovani avvocati per poi scaricarli. Si tratta di un centro di potere polivalente, funzionale a procurare denaro e incarichi a colpi di convivenze con la politica e il mondo economico, a mantenere privilegi attraverso la manovalanza a costo zero, ad assicurare un elettorato per le cariche istituzionali, infine, a garantire versatori di contributi previdenziali.
Scorrendo i tanti blog su cui scrivono professionisti sempre più insofferenti, appare evidente l’immensa distanza che li separa, non solo dalla detestata élite, ma anche da qualsiasi logica liberale di mercato. È del tutto evidente che il numero abnorme di avvocati in Italia impedisce loro di acquisire una clientela sufficiente e di tenere aperto uno studio. Nel mondo dei blog legali, invece, le argomentazioni vanno in tutt’altra direzione. Si nega che ci sia una saturazione del mercato; si sostiene che 250.000 avvocati siano addirittura un bene per i cittadini perché maggiormente tutelati; ci si sfoga puntando il dito contro gli altri («…in Italia c’è troppo di tutto. I disoccupati sono troppi e anche i baby pensionati sono troppi […] troppi ladri, troppi banditi, troppi bar, troppe slot machines, troppe squadre di calcio…»).
È facile sorridere davanti a certe affermazioni ma non si può minimizzare un disagio diffuso e reale. Al contrario, dovrebbero impensierire l’avvocato d’impresa perché nella detestata élite ci sono anche i grandi studi legali, accomunati indistintamente agli interessi che vorrebbero accentrare il potere politico, sociale ed economico nelle mani di pochi.
Secondo la denuncia, le law firm, al pari delle istituzioni forense, si auspicherebbero il collasso del mercato dei servizi legali, o per restringere l’esercizio forense alla moltitudine di avvocati o per provocare il loro annientamento.
A riprova del complotto, sono gli stessi dati pubblicati dalla Cassa forense ad accertare che l’1,9% degli iscritti (4.096 professionisti) guadagna il 27% del reddito totale. Inoltre, i grandi studi, «ben ammanigliati» e «ben sponsorizzati», vengono indistintamente accomunati alle lobby romane del Cnf, poiché sarebbero capaci di trovare alleanze con i vari ministri della Giustizia che si sono susseguiti negli anni che poi propongono solo riforme per creare un monopolio a vantaggio di pochi professionisti. L’ultima prova sarebbe la riforma sulle specializzazioni forensi, disegno volto a favorire l’immagine e la credibilità dei «megastudi», ad aumentare esponenzialmente la loro clientela per espellere i giovani dal sistema.
Il crescente risentimento rischia così di etichettare come nuova casta i grandi studi legali. Proprio quelli che più hanno fatto per sollevare la professione dal medioevo e instaurare sistemi di formazione e meritocrazia sconosciuti in Italia fino a pochi decenni fa.