editoriale

Avvocati, pubblicità e deontologia: un conflitto irrisolto

Una regolamentazione eccessivamente centralizzata rischia di accentuare le divisioni della professione

14-01-2025

Avvocati, pubblicità e deontologia: un conflitto irrisolto

 

di Marco Michael Di Palma


Con la sentenza 294/24, il Consiglio Nazionale Forense (CNF) ha ribadito il divieto per gli studi legali di divulgare il nominativo dei clienti, riaffermando il valore inderogabile del comma 8 dell’art. 35 del Codice Deontologico. Questo articolo stabilisce che “nelle informazioni al pubblico, l’avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti assistite ancorché questi vi consentano”. La sentenza conferma la continuità di una norma che, nonostante le modifiche legislative volte a liberalizzare le forme di pubblicità, mantiene intatto il divieto.

 

A commentare la decisione è intervenuto Claudio Cosetti, esperto in comunicazione, che ha evidenziato alcune criticità rilevanti, definendo questa impostazione come espressione di un “integralismo deontologico”. Secondo Cosetti, i principali nodi da affrontare riguardano il conflitto con i principi di libero mercato e concorrenza, l’impatto negativo sullo sviluppo del mercato dei servizi legali e i limiti imposti alla trasparenza e all’innovazione economica. Tali restrizioni rischiano di danneggiare una professione che necessita di innovazione per affrontare le sfide moderne, non solo in termini di comunicazione ma anche di trasformazioni più ampie. 

 

Sarebbe legittimo in questo caso parlare anche di “assolutismo giuridico,” per riprendere il concetto trattato dal giurista e storico del diritto Paolo Grossi

 

A livello normativo e contrariamente alle linee interpretative precedenti, già la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 7501 dell’08/03/2022 aveva stabilito che le norme del Codice Deontologico degli avvocati costituiscono fonti normative a tutti gli effetti. Questo principio conferma il controllo esclusivo e centralizzato degli Ordini forensi sulla produzione normativa, imponendo ai professionisti iscritti all’Albo vincoli fondati su criteri astratti. Tale approccio sembra escludere qualsiasi forma di pluralismo giuridico, relegando il contesto economico a un ruolo marginale e sopprimendo la possibilità che regole di comportamento possano emergere da esigenze di mercato.

 

La professione legale si trova così frammentata in due anime: da un lato, la maggioranza degli avvocati che assiste persone fisiche; dall’altro, un sottoinsieme di avvocati d’impresa. Sebbene queste due categorie siano soggette alla medesima regolamentazione, seguono traiettorie sempre più divergenti, come dimostrano le recenti pronunce giurisprudenziali. Tra queste, una recente sentenza della Cassazione ha negato agli avvocati mono-committenti il diritto al lavoro subordinato, nonostante i confini tra lavoro autonomo e subordinato siano oggi sempre più sfumati.


In conclusione, l’approccio adottato dal CNF rischia di ideologizzarsi ulteriormente, allontanando le autorità forensi dalla complessità delle dinamiche professionali vissute dagli avvocati d’impresa. Il divieto di divulgare i nominativi dei clienti appare destinato a intensificare le divergenze all’interno della categoria, invece di promuovere una visione unitaria e moderna della professione. Per superare queste fratture, è necessario un ripensamento delle regole, in grado di coniugare il rispetto dei principi deontologici con le esigenze di un mercato in continua mutazione.

 

L’articolo è tratto dalla TopLegal Digital di gennaio 2025 – n. 1. Registrati / accedi al tuo profilo per sfogliarla gratuitamente


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