di Marco Michael Di Palma
Emergono tre tendenze generali dall’Osservatorio lateral TopLegal per il primo semestre (H1) dell’anno. Primo, le promozioni a socio continuano a diminuire, un calo del 29% rispetto a due anni fa. Secondo, i passaggi di soci equity sono quasi raddoppiati rispetto al periodo pre-pandemico. Infine, aumentano le "De-equitizazzioni" (43%), soprattutto nelle realtà medio-piccole le quali hanno visto approdare il maggiore numero di soci equity. Messe insieme, queste tendenze indicano la necessità di trovare conoscenze e supporto qualificato per soddisfare una domanda a cui la crescita organica non può tenere il passo. Non solo, gli studi con margini più risicati hanno dovuto altresì riqualificare la propria partnership.
Quanto influiscono queste tendenze sugli equilibri del mercato? Dal punto di vista del consolidamento, sembrerebbe poco. Negli ultimi tre anni, sono avvenute in Italia solo due operazioni di fusione tra studi di peso. Le fusioni comportano un inconveniente necessario che il mercato italiano ha finora cercato di evitare: la cancellazione dal mercato nonché la diluizione del controllo e della cultura dello studio rilevato.
A riprova dello scarso consolidamento del comparto legale, all’ampliamento delle compagini si contrappongono forze uguali e opposte. Mentre le squadre e i fatturati delle prime 30 insegne sono aumentati negli anni, i numerosi spin off hanno fatto altresì accrescere gli attori. Ammonta a 17 il numero di nuove insegne tra i primi 100 studi del TopLegal Index che dal 2006 si sono svincolati da altri studi. La pandemia, poi, ha rimescolato le carte amplificando l’instabilità delle compagini. In questa prospettiva, sembrerebbero cambiati soltanto gli equilibri all’interno della fascia alta e medio alta che si sta progressivamente distaccando dalla fascia media. L’unico vero consolidamento, quindi, sarebbe un consolidamento relativo.
Eppure, un mercato consolidato favorisce l’innovazione e il valore. Lo dimostrano le Big Four (Deloitte, PwC, Ey e Kpmg) con i loro processi di gestione inesistenti negli studi legali e il loro fatturato globale complessivo annuale di oltre 150 miliardi di dollari. Dal 2020, le società miste hanno investito miliardi per i servizi di trasformazione digitale. A confronto, la stragrande maggioranza di studi legali hanno budget insufficienti per investire nelle proprie strutture interne e nelle soluzioni al cliente.
Non solo. In molte realtà ci si aspetta ancora che avvocati privi di una formazione per lo sviluppo del business si occupino di tutti gli aspetti dello studio, limitando così l’unica possibilità di fare incassi. Se la frammentazione è indizio della caratteristica non ottimale del comparto legale italiano, viene da chiedersi perché sussiste.
È ragionevole immaginare che l’attenzione dei senior partner ultimamente sia stata rivolta a superare le sfide della pandemia invece di ponderare i temi strategici. Tuttavia, la frammentazione è dovuta a diversi fattori, in parte oggettivi e in parte caratterizzanti dell’assetto del Paese.
La mobilità del capitale intellettuale ha un effetto tutto particolare e determinante per il comparto legale. I dirigenti di un’azienda vanno e vengono, ma il legame con i suoi clienti rimane sostanzialmente inalterato. Il cliente che affida un mandato, invece, incarica lo studio legale ma in particolar modo i professionisti che lo assistono. Se questi decidono di levare le tende, portano via anche il cliente.
Poi ci sono i conflitti. Un cliente che incarica un professionista incarica tutti gli altri professionisti dello stesso studio. Più numerosi sono i professionisti, peggio è. Il divieto deontologico è prassi in ogni giurisdizione, ma in Italia ha un’applicazione in un contesto economico particolare. Le anomalie del capitalismo italiano, per cui un numero ristretto di grandi monopolisti dominano la scena economica, fanno aumentare esponenzialmente la possibilità di conflitti, disincentivando le aggregazioni.
Infine, l’esistenza di segmenti diversi tra di loro fa da barriera al consolidamento quando gli studi competono, non sulla base del costo del servizio, ma sul differenziamento dell’offerta. Gli equilibri di potere tra domanda e offerta variano a seconda della diversità degli attori e dei servizi che offrono. In questi casi, non esistono economie di scala e il consolidamento non ha senso. Freno, però, che ha una rilevanza circoscritta perché non tutti gli studi competono sulla base della distintività della loro offerta.
Per le insegne che, invece, appartengono allo stesso segmento per servizio, organizzazione interna e clientela, ha senso eccome fondersi con altri per ridurre i costi operativi e aumentare i ricavi. Le aggregazioni di questo tipo sono finora avvenute quasi esclusivamente tra compagini piccole in cerca di un’offerta più diversificata. Con la ripartenza, le fusioni potrebbero tornare sull’agenda di altri studi per mettere fine alla polverizzazzione anacronistica da tempo lamentata dai clienti.