All’inizio del nuovo millennio si conclude la prima fase di una rivoluzione che stravolge l’Italia. Scaturita dalle privatizzazioni e l’apertura ai grandi investitori stranieri, questa rivoluzione trasforma il diritto in servizio di appalto erogato da schiere di consulenti con una cultura organizzativa aziendalistica. Gli avvocati d’affari italiani, esposti per la prima volta ad una moderna realtà professionale, prendono coscienza dei propri limiti di fronte ad un capitalismo globale che si è riorganizzato intorno a nuove logiche di efficienza. Una prima ondata di studi legali internazionali da Londra conquista le piazze romane e milanesi a partire dal 1993. Ne seguirà una seconda che vedrà lo sbarco anche degli studi americani, ma nella breve tregua che la precede il mercato legale riprende fiato e l’iniziativa passa agli italiani.
In modo del tutto eccezionale si dà vita a nuove aggregazioni domestiche, a partire dall’unione delle due anime di Carnelutti che nel 1998 mettono da parte una lotta dinastica durata trent’anni per ricostituirsi in un unico studio. L’anno successivo, Grande Stevens si fonde con Pedersoli e tre studi cappeggiati da Franco Bonelli, Sergio Erede e Aurelio Pappalardo diventa una sola realtà. Questo consolidamento rovescia una tradizione imprenditoriale profondamente radicata abituata al ‘piccolo è bello’. Gli studi stranieri giunti in Italia si misurano con concorrenti autoctoni la maggior parte dei quali non supera i 15 professionisti. Alcuni considerano le aggregazioni una leva per rendersi più attraente come alleato di uno studio internazionale; altri ambiscono a negoziare alla pari un’eventuale fusione. Altri ancora intendono semplicemente difendere la propria indipendenza. L’incontro tra italiani e stranieri mieterà più vittime, ma nel crogiolo dei riassestamenti del mercato la più grande operazione di integrazione tra uno studio italiano e una controparte straniera potrebbe ancora consumarsi.
Siamo nell’ottobre del 2000 e gli inglesi di Freshfields Bruckhaus Deringer sono alla ricerca di massa critica a Roma, da cui provengono le privatizzazioni di aziende statali. Alcuni soci di Freshfields aprono le danze con un approccio ai rainmaker di Chiomenti, lo studio più strutturato ed istituzionalizzato tra le insegne italiane, con l’intenzione di rilevarne i soci migliori. Invito declinato ma segue una controproposta di fusione tra i due studi. Lo studio Chiomenti in questo momento si trova al bivio. Al timone vi è Michele Carpinelli che guida lo studio in un momento in cui i concorrenti diretti entrano in declino o si scontrano in guerre intestine. Tuttavia, l’arrivo delle insegne internazionali scompiglia la compattezza anche in casa Chiomenti e da ora in poi l’insegna faticherà a conciliare gli imperativi di indipendenza e di competitività, a tal punto da diventare l’emblema dei dilemmi che tormentano altre insegne italiane. Nel seguire le fortune di Chiomenti si tracciano pertanto tutte le vicissitudini e le incertezze strategiche che passano ora per la fusione o l’alleanza, ora per l’espansione estera.
La proposta di Freshfields non è il primo corteggiamento di Chiomenti da parte di uno studio internazionale. Ci aveva provato per primo un altro studio londinese, Clifford Chance, al momento del suo sbarco in Italia nel 1993. Nel 1996 si fa avanti un secondo studio proveniente dalla City, l’allora Linklaters & Paines, che invia in secondment i suoi avvocati. Il rapporto non decolla neppure questa volta e verso la metà del 1999 gli inglesi (ora diventati Linklaters & Alliance) annunciano l’ingresso nella propria rete del concorrente Gianni Origoni. Verso la fine del 1999 arriva una terza occasione, questa volta statunitense, targata Shearman & Sterling. Dopo negoziati durati otto mesi i soci americani sono sull’orlo di approvare una fusione ma la controparte italiana frena. I malumori all’interno dello studio romano, tali da mettere in discussione persino la leadership di Carpinelli, trapelano nella stampa estera a cui il senior partner Carlo Croff sente il dovere di smentire le trattative in corso e precisa che lo studio sta lavorando a stretto contatto con gli inglesi di Slaughter and May (questi ultimi sceglieranno presto un altro concorrente come alleato italiano: Bonelli Erede Pappalardo).
Fallito il progetto di fusione con Shearman, la causa ufficiale viene attribuita a « differenze culturali ». La stampa inglese invece sottolinea la mancanza da parte degli americani di un business plan realistico per assistere e sviluppare la clientela europea. Alcuni degli italiani temono che Shearman sarebbe troppo preso nel seguire i propri clienti americani in Italia a discapito della practice italiana. Altri, come il socio e specialista di project finance Franco Vigliano, tra i sostenitori della fusione con Shearman, sono convinti che si è persa un’occasione e che il fattore tempo non giova più a Chiomenti. Dopo l’insuccesso con Shearman, la scelta da compiere secondo Vigliano è semplice: «O ci fondiamo con uno studio internazionale o diventiamo una boutique. Manteniamo ancora la nostra posizione tra i primari studi in Italia, ma questo sta diventando sempre più difficile».
Ed è nel mancato accordo tra Chiomenti e Shearman che i soci di Freshfields intravedono un’opportunità. Purtroppo le trattative si rivelano l’ennesimo binario morto per la controparte italiana. Quattro mesi dopo, nel gennaio 2001, si interrompono i negoziati ed è la seconda volta nell’arco di un anno che i soci di Chiomenti non raggiungono l’integrazione. Dopo la fallita fusione escono cinque soci, tra cui lo stesso Vigliano che approda in Allen & Overy e avverte: «Non si può sfidare la globalizzazione che sta al centro della nostra practice di corporate e banking». Questa volta a sbarrare la strada dell’accordo è il lockstep inglese e l’impossibilità di allinearlo con lo spread dell’equity italiano. Per gli inglesi il margine è di 1 a 2,5 contro l’ 1 a 8 di Chiomenti. Di fronte a tali divergenze abissali, le parti sono costrette a ritirarsi dalle trattative. Significativa da questa prospettiva è l’interpretazione che ne danno i soci di Chiomenti e che rivela il clima di pensiero. I motivi del fallimento Freshfields andrebbero ricercati nelle ineguaglianze, non di reddito, ma di notorietà dei singoli avvocati. «Non ci si poteva chiedere di passare attraverso una struttura di gestione comune quando volevamo essere leader in Italia», dichiara a distanza di alcuni mesi il senior partner Luigi Bendi. «Non sarebbe stato possibile condividere questo potere con gli avvocati che non erano così affermati e noti sul mercato italiano come eravamo noi». Tali criteri imprescindibili faranno calare una pietra tombale su ogni futuro progetto di integrazione.
Tramontato il piano di un accordo inglese, il socio Bendi ipotizza la possibilità di un’altra integrazione americana. «Avendo già parlato con Clifford Chance, Linklaters e Freshfields», dichiara, «è probabile che preferiremmo un partner di fusione americano». Alla base di questa preferenza, secondo Bendi, sarebbe l’atteggiamento condivisibile degli americani nel modo di percepire (e di valorizzare) il ruolo dell’individuo nell’associazione. Per Chiomenti conta innanzitutto rafforzarsi senza estraniarsi nella sua profonda natura identitaria. Ma la preferenza per gli americani è altresì dettata dalla necessità: con l’entrata degli studi più noti, la partita internazionale in Italia ora sta entrando nella sua fase finale. L’attrattività dell’Italia rimane alta grazie alla presenza degli studi inglesi che hanno fatto incetta di operazioni di M&a, cartolarizzazioni e project finance. Allo stesso tempo, molte aziende private tricolori, gestite sin dall’inizio come business familiari, sono cresciute a tal punto di dover fare una scelta e decidere come competere in un mercato globale. Avendo già perso una grossa fetta di privatizzazioni italiane, gli studi americani sono determinati ad entrare in un mercato ancora in espansione.
Nel giugno 2001, Chiomenti trova il suo partner americano in Skadden con cui sigla non una fusione ma un’alleanza esclusiva. Se per Chiomenti l’alleanza soddisfa il geloso mantenimento della propria indipendenza, i vantaggi per Skadden sembrano più evidenti. La joint-venture per il colosso americano è il modo migliore di assicurarsi mandati di primo livello nel banking, capital markets e M& a per conto dei principali clienti italiani senza pertanto avere una presenza nel Paese. Ciononostante, l’alleanza accelera l’espansione internazionale di Chiomenti che apre una sede a New York. Anche questa volta, la scelta strategica ha un prezzo: la perdita di quattro soci quotati (Massimo Benedettelli, Bruno Castellini, Marzio Longo e Renato Paternollo) che passano nelle fila dell’ufficio milanese di Freshfields. Il gruppo teme che l’accordo con Skadden possa indurre il team italiano a focalizzarsi sul lavoro domestico limitandone l’intervento nelle operazioni internazionali. Ma c’è un ulteriore prezzo per il mantenimento dell’indipendenza. Dal punto di vista strategico, un rapporto esclusivo è poco idoneo per gestire l’attività italiana ed elimina altresì la possibilità di allargare le collaborazioni all’estero.
All’inizio del 2008, salta l’alleanza con Skadden. Superata la fase delle fusioni e delle collaborazioni strategiche, Chiomenti tenta un nuovo approccio con l’espansione diretta nei mercati sud- est asiatici. Nel marzo 2007, diventa il primo studio italiano a sbarcare in Cina con una sede a Beijing. Un anno dopo, la presenza in Asia si amplia grazie alla rilevazione della practice sinoitaliana di Birindelli e associati. Con questa integrazione Chiomenti inaugura la propria presenza a Shanghai e Hong Kong, oltre che a Singapore, in Vietnam e nella Corea del Nord. In tutto, lo studio può contare su un organico in situ di circa 40 professionisti.
Nel frattempo in Italia si è aperta una nuova stagione di operazioni multimiliardarie trainate dalle aggregazioni bancarie di cui Chiomenti è protagonista. Ma per gli avvocati d’affari si tratta delle ultime note del cigno; presto arriverà una frenata brusca del mercato con il crollo del settore immobiliare e il fallimento dei titani della finanza. La crisi finanziaria provocata dal vuoto di fiducia su Wall Street non risparmia nemmeno gli investimenti in Cina dove gli studi internazionali iniziano a ridimensionarsi. La corsa alla Cina ha portato oltre 180 insegne internazionali, facendo esplodere la concorrenza. Ad oggi, sono poche le sedi cinesi ad essere profittevoli.
Mentre Chiomenti consolida l’attività in estremo oriente – firma l’accordo di associazione esclusiva (ad inizio 2010) con lo studio CdB and Jc & Co di Hong Kong e inaugura la sede di Singapore – in Europa è costretto a tornare su i suoi passi. Sull’auspicabilità di siglare alleanze di best friendship, in un’intervista nel 2008 ( TopLegal, n.7, luglio/ agosto) Carlo Croff insiste che «questo tipo di accordo non rientra nei nostri programmi ». Quattro anni dopo, lo studio si muove per saldare un’alleanza europea con l’insegna iberica Cuatrecasas Gonçalves Pereira, la francese Gide Loyrette Nouel e i tedeschi di Gleiss Lutz. L’alleanza non- esclusiva è strutturata sulla falsariga di quella esistente di Slaughter and May ma con un decennio di ritardo rispetto all’associazione concorrente.
Nella stessa intervista con TopLegal già citata, il socio di Croff Francesco Ago dichiarava che «internazionalizzazione e indipendenza» sono i «due pilastri della nostra cultura». I due pilastri sono stati spesso in contrasto l’uno con l’altro a partire dagli anni novanta quando un mercato in forte espansione e ambito dai giganti dell’industria legale impone una scelta allo studio: rimanere boutique domestica o diventare realtà internazionale. Proprio come l’ex alleato Skadden, Chiomenti ha voluto essere entrambi: una boutique internazionale, appunto, nonostante i limiti strutturali del capitalismo italiano che hanno impedito la nascita di campioni a livello internazionale. In particolare, l’approccio ‘chiomentiano’ ha rappresentato la volontà, non tanto di sfidare la globalizzazione come sosteneva Vigliano, quanto di affrontarla rifiutando ogni snaturamento per conservarsi inalterato nella propria cultura, struttura e modello di redditività. In questo, Chiomenti si rivela espressione di una visione italiana diffusa. Da vent’anni, il riflesso automatico di ogni studio italiano blasonato di fronte alle minacce della globalizzazione è stato quello di trincerarsi dietro tradizione ed identità, identità indissociabile con un modello boutique e un posizionamento sulla fascia alta del mercato. Se la sfida per conservare identità e tradizione è stata notevole 20 anni fa, oggi lo è ancora di più. Il mercato italiano si è ridimensionato in piazza prevalentemente distinta da operazioni di mid-market in cui le forti pressione sui prezzi costringono a lanciarsi in una competizione al ribasso. Per una boutique di oltre 250 avvocati, il lungo cammino dell’internazionalizzazione rimane tuttora obbligatorio, se non altro per mettersi in salvo a casa propria.
Artcolo pubblicato in TopLegal, numero di ottobre 2014
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