C’è chi la definisce una coperta troppo corta. E chi, invece, l’ha accolta come una piccola rivoluzione che inciderà sul futuro dell’avvocatura. Probabilmente dipende dalla prospettiva da cui la si guarda. Se è vero che non ha la forza dirompente auspicata dai puristi dello studio legale Spa, è altrettanto vero che la legge 124 del 2017 (nota anche come legge sulla concorrenza), approvata lo scorso agosto, rappresenta un passo verso la modernizzazione dei piccoli studi.
Una cosa è certa. Intervenendo sia sull’esercizio della professione in forma societaria sia in materia di compenso professionale, la legge scardina l’idea secondo cui la professione forense non sarebbe un’attività economica d’impresa, imponendo agli studi di riflettere su struttura e costi secondo i principi di trasparenza e organizzazione. Due temi che già da tempo si pongono all’attenzione degli studi legali associati, ma che rappresentano una vera novità per la fiumana di piccole insegne che costituiscono l’ossatura del mercato legale italiano. Un’ossatura fragile – la maggior parte degli avvocati infatti dichiara redditi inferiori a 10.300 euro annui – che la legge 124 intende rafforzare introducendo la possibilità di avere soci di capitale, di partecipare a più di un’associazione e di costituire reti e consorzi (anche con le imprese) per partecipare agli appalti.
Dopo anni di discussioni e deleghe rimaste inattuate, il legislatore ha così introdotto il socio di capitali anche all'interno dello studio legale, purché entro il limite massimo di un terzo del capitale sociale e dei diritti di voto. Un limite che ha diviso le opinioni del mercato.
Sondando gli umori di alcuni professionisti, si legge una certa delusione in chi sperava che l’Italia potesse emulare la liberalizzazione totale del mercato dei servizi legali avvenuta in Uk e in Australia, dove si è anche registrata la prima quotazione al mondo di uno studio legale, Slater & Gordon. “C’è stato un cambiamento formale ma non sostanziale”, interviene al riguardo Filippo Palmieri, partner di Curtis Mallet-Prévost Colt & Mosle, argomentando che “così com’è stato strutturato il Ddl non ha la forza sufficiente a cambiare realmente l’operatività degli studi ed a consentire l’ingresso di “veri” soci di capitale perché chi investe in una società richiede necessariamente di poter disporre di determinati poteri d’intervento laddove la legge non consente la possibilità di incidere da un punto di vista assembleare e gestionale”.
In effetti, si stenta a credere che la parziale liberalizzazione del mercato italiano possa costituire una vera rivoluzione se non lo è stata neanche l’esperienza inglese delle alternative business structure (Abs), le strutture che consentono a investitori esterni di partecipare fino al 100% al capitale di studi professionali organizzati in forma societaria. Da una recente survey pubblicata lo scorso giugno dal Legal Service Board, che ha il compito di supervisionare l'operato degli ordini professionali, è emerso infatti che, a distanza di sei anni dall’entrata in vigore delle nuove disposizioni, metà delle Abs costituite (e dunque circa 500) hanno meno del 50% di soci di capitali.
Considerando ciò, alcuni professionisti argomentano che difficilmente una legge che limita la possibilità di incidere da un punto di vista gestionale e assembleare com’è quella italiana potrà avere un grande impatto. Sarebbe un’occasione persa perché, sulla carta, l’ingresso di soci di capitali potrebbe rilanciare la competitività degli studi, fornendo loro i mezzi economici per sviluppare il business, investire in tecnologia e aprire nuove sedi, in Italia o all’estero. Rimediando ai limiti della gestione economica per cassa. “Attraverso una gestione economica per cassa non si riesce a finanziare la crescita dello studio. L’ingresso dei soci di capitali rappresenta una grande opportunità per realizzare investimenti specifici come adozione di nuove tecnologie, recruiting di professionalità con competenze in aree in via di sviluppo, esportazione del proprio know how e, non ultimo, per dare continuità generazionale. Sicuramente un ausilio per mantenere elevata la competitività nel mercato internazionale dei servizi legali”, sottolinea Mario Tonucci, socio fondatore dell’omonimo studio e da sempre grande sostenitore della liberalizzazione del mercato.
Dietro l’ingresso dei soci di capitali, poi, ci sarebbe anche un’altra opportunità interessante per lo studio: quella di rinsaldare i rapporti con alcuni clienti che potrebbero decidere di fidelizzarsi con l’ingresso nel capitale dell’insegna di riferimento. Le nuove disposizioni potrebbero inoltre favorire l'aggregazione delle competenze, riducendo la frammentarietà del mercato. Lo conferma Alessandro De Nicola, senior partner di Orrick: “Le novità in esame potrebbero avere come effetto immediato e diretto la cancellazione delle piccole realtà operanti in settori quali l’infortunistica stradale, danni alla persona, diritto del lavoro, successioni, e più in generale questioni di diritto di famiglia e la creazione di reti di professionisti operanti sotto la medesima organizzazione a livello nazionale. È quello a cui abbiamo in parte assistito oltre Manica e non mi aspetto controtendenze qui in Italia”. Concorda Romeo Battigaglia, partner di Simmons & Simmons: “La creazione di consorzi potrebbe essere utile per dare un connotato di maggior organizzazione alle varie forme di associazioni tra professionisti indipendenti attraverso un modello che diventerà tipico”. Sia De Nicola che Battigaglia sono d’accordo, invece, nel ritenere che la nuova legge avrà un impatto limitato, se non nullo, sugli studi internazionali, già organizzati secondo criteri di efficienza e modernità.
Mentre sono chiari i vantaggi di questo tipo di manovre per gli studi, ciò che desta maggiore scetticismo è il vantaggio che potrebbe trarne un investitore finanziario. In primis per problemi di redditività, ma non solo. Le ragioni sono molteplici: la difficoltà di poter realmente incidere sull’efficienza degli studi in virtù del limite imposto alla gestione del business, la scarsa trasparenza di governance e di bilanci (attualmente non certificati) degli studi, la carenza di competenze in questo settore e le difficoltà di exit.
Ciò che potrà fare la differenza sarà la capacità degli studi di mettere in piedi una vera riforma del management e della governance per cogliere queste nuove opportunità. “Fino a oggi – sottolinea Rocco Panetta, socio fondatore e managing partner di P&A - Panetta & Associati - in tutti i grandi studi alla fine chi decide sono sempre gli avvocati soci. Questo crea delle distorsioni perché gli avvocati solo in rari casi hanno anche le qualità e gli skills dei manager. L’ingresso del socio di capitali dovrebbe spingere verso un’organizzazione più manageriale sia le piccole che le grandi realtà”. Ma per farlo sarà necessario superare le barriere di tipo culturale e accettare una separazione tra professione e capitale, gestione e proprietà.
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