di Marco Michael Di Palma
Le autorità forensi hanno recentemente ribadito la necessità di un'innovazione a tutto campo — digitalizzazione, cultura, deontologia e organizzazione — per garantire la competitività e la contemporaneità della professione. Tuttavia, si parla poco di un problema altrettanto cruciale: la crescente disaffezione dei giovani avvocati. Questo fenomeno, se non affrontato, rischia di compromettere seriamente il ricambio generazionale negli studi legali, che già oggi faticano a reclutare nuovi talenti.
Un allarme in tal senso è stato lanciato da Ferruccio de Bortoli nel suo articolo “Nel Paese degli avvocati mancheranno gli avvocati” (“Corriere della Sera”, 20 novembre 2024). Negli ultimi quindici anni, gli iscritti a Giurisprudenza si sono dimezzati, passando da 37 mila a 18 mila, mentre i candidati all’esame di avvocato sono diminuiti del 30%. Questo declino riguarda anche la sottocategoria degli avvocati d’impresa, sempre più attratti dalle aziende anziché dagli studi legali, con conseguenze evidenti: gli studi incontrano crescenti difficoltà a reperire professionisti qualificati.
Le radici del malessere sono risaputi. I giovani professionisti lamentano, in primo luogo, uno sbilanciamento tra lavoro e vita privata, la resistenza degli studi al lavoro da remoto e una gestione poco efficace del capitale umano. Come evidenziato da un intervistato del nostro osservatorio sugli associate: “È assurdo parlare di smart working in ambienti dove, come liberi professionisti, si dovrebbe essere autonomi”. A questi fattori si aggiungono carichi di lavoro eccessivi e richieste di flessibilità senza limiti.
Il nostro osservatorio ha quantificato la portata di questa insoddisfazione: il 61% dei collaboratori intervistati, distribuiti tra junior, mid-level e senior, lascerebbe il proprio studio, e il 38,3% di loro opterebbe per una posizione nelle direzioni legali aziendali. Più preoccupante ancora è il dato che emerge dalla disconnessione tra i giovani collaboratori e i soci degli studi: un significativo 35,5% dichiara che abbandonerebbe la professione se ne avesse la possibilità.
La recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha respinto la richiesta di un avvocato monocommittente di essere riconosciuto come lavoratore subordinato, riaccende il dibattito sui confini, ormai sfumati, tra lavoro autonomo e subordinato. Se da un lato l’inquadramento come dipendenti comporterebbe un aumento dei costi per gli studi legali e una riduzione della loro flessibilità operativa, dall’altro è evidente che i principi di indipendenza e autonomia sono sempre più lontani dalla realtà.
Questi dati e dinamiche mettono in crisi la sostenibilità del modello organizzativo tradizionale degli studi legali. Un cambiamento radicale è ormai inevitabile: serve un ripensamento della cultura lavorativa. La capacità di attrarre e trattenere i talenti non sarà più un’opzione, ma una condizione necessaria per la sopravvivenza stessa della professione. La vera sfida, dunque, non è solo se innovare, ma come farlo. Gli studi legali che sapranno interpretare questo cambiamento con visione e pragmatismo avranno maggiori probabilità di restare competitivi e rilevanti.
L’articolo è tratto dalla TopLegal Digital di dicembre 2024 - n.11. Registrati / accedi al tuo profilo per sfogliarla gratuitamente