di Marco Michael Di Palma
Da più anni gli osservatori della professione legale lamentano la sua impostazione ottocentesca del lavoro e la resistenza inveterata al cambiamento. I teorici del futuro temono e auspicano in egual misura una rivoluzione dirompente per la professione che ne cambierà per sempre l’essenza. Con l’arrivo della tecnologia sembra che questo tanto atteso quanto paventato stravolgimento o disruption sia finalmente arrivato. Le rivoluzioni, si sa, non si compiono in un battito d’occhio. Più che a un capovolgimento improvviso, stiamo assistendo già da più decenni a un’evoluzione continua.
Dall’elaborazione elettronica dei dati degli anni Settanta alla posta elettronica negli anni Novanta e agli smartphone degli anni Duemila, siamo giunti al Legal Tech nell’ultimo decennio con i suoi software digitali prima e ora con l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico (machine learning). Eppure questa volta si ha la sensazione che cambieranno le regole del gioco. Sono molti che si chiedono se, dopo gli impiegati di banca, i tassisti e i piccoli commercianti, saranno gli avvocati le prossime vittime della Silicon Valley.
L’intelligenza artificiale nel comparto legale è già una realtà negli Stati Uniti e Inghilterra e non può che diffondersi ulteriormente. I clienti, che all’indomani della crisi hanno chiesto ai consulenti esterni un cambio di passo, non smetteranno di esigere maggiore efficienza e valore. L’imperativo di tagliare i costi ha dato vita al settore legal tech la cui espansione è impressionante. Negli Stati Uniti sono oltre 280 le start up avviate dal 2012 che si focalizzano su specifiche aree del diritto (il fallimentare, i brevetti) o sui processi (la revisione dei contratti). Il loro fatturato annuo complessivo è di 757 milioni di dollari.
Non che la tecnologia sia poi così “automatica”. La messa a punto dei sistemi cognitivi richiede tempo e una formazione minuziosa da parte degli esseri umani che sono costretti comunque a controllare i risultati. Motivo per cui anche i pareri attualmente generati con i dispositivi di intelligenza artificiale richiedono un’ulteriore giornata di lavoro per consentire l’elaborazione di una bozza pulita finale da parte di esseri fatti di carne e ossa. L’investimento inziale necessario è anche il motivo per cui le ripercussioni delle tecnologie legali non si sono ancora fatte sentire in Italia.
Ci vorrà tempo per istruire i sistemi intelligenti a manipolare i concetti nei documenti di lingua italiana. Ma i tempi sono stretti. I futurologi affermano che, nel prossimo decennio, l’interazione faccia a faccia tra avvocato e cliente sarà superata da sistemi e processi automatizzati. Un recente studio sulla magnitudo dell’impatto tecnologico della University of North Carolina School of Law ha stimato che se fossero implementate tutte le tecnologie attualmente disponibili le ore fatturabili degli avvocati diminuirebbero del 13 per cento. Considerando le tecnologie effettivamente operative, lo stesso studio stima un calo più contenuto del 2,5% su base annua per il prossimo quinquennio.
Da parte sua, McKinsey stima che il 23% del lavoro ora svolto dagli avvocati potrebbe essere automatizzato. Ad alto rischio automatizzazione sono i processi ripetibili quali la due diligence, il contenzioso seriale, i contratti standard e la ricerca. In questi ambiti le attività e le decisioni saranno determinati dai dati e non più dall’esperienza né dalle conoscenze tecniche dei professionisti. La conseguenza sarà una maggiore segmentazione dell’offerta e un’ulteriore disaggregazione (unbundling) tra servizi legali ad alto valore aggiunto e servizi fungibili destinati a essere terreno delle macchine.
Questa netta divisione porterà necessariamente a ripensare anche l’organizzazione e il modello d’affari dello studio legale basato sulla leva dei collaboratori. Tuttavia la tecnologia non significa la fine della professione legale come alcuni teorizzano, ma l’ascesa di una nuova professione basata sulle capacità integrate. In questa ottica, i vantaggi della tecnologia faranno da indispensabile strumento di supporto per gestire il rischio. Grazie ai sistemi cognitivi artificiali capaci di aggregare vaste quantità di dati, si miglioreranno per esempio le previsioni sul comportamento di un giudice o sulla propensione della controparte alla transazione o alla disputa.
Alcune aree di attività rimarranno sempre a prova di macchine, come le negoziazioni complesse che richiedono giudizio, saggezza ed empatia, qualità irriducibilmente umane. Per il rimanente 90% del lavoro, non si potrà prescindere da nuove piattaforme di servizi capaci di coniugare dati giuridici e tecnologia. Anche per i giovani, la fascia sicuramente più a rischio, si profilano nuove opportunità. L’eliminazione della due diligence farebbe venire meno una palestra importante per i collaboratori, ma potrebbe altresì costringere gli studi a valorizzare maggiormente le proprie risorse. Il tempo speso nel data room servirà alla formazione diversa, alla ricerca e allo sviluppo di ambiti all’avanguardia del diritto. Magari a reinventarsi come tecnologi del diritto.