Che si tratti di rivedere le logiche che regolano il funzionamento interno alla direzione o quelle che presidiano alla scelta e al rapporto con i consulenti esterni, l’obiettivo richiesto ai General counsel oggi è una maggiore razionalizzazione dei costi. Gestire il budget è un potere. È per questo che chi controlla la spesa legale deve avere un’idea chiara sui parametri in base ai quali farlo. Ma in un mercato come quello legale italiano, caratterizzato da una penombra informativa sui prezzi del servizio, non ci sono criteri che aiutino a razionalizzare la spesa.
Il problema dei General counsel è quello che, a differenza di altri manager aziendali, si trovano a gestire prevalentemente costi non destinati a beni tangibili, ma a servizi intangibili per i quali non ci sono parametri di riferimento oggettivi. Ne consegue l’aumento della difficoltà per gli in-house di amministrare al meglio il proprio budget, pianificando la spesa legale e la giusta allocazione delle risorse.
TopLegal per questo ha deciso di compiere uno studio pilota che servirà a sviluppare un benchmarking delle tariffe vigenti nel mercato legale d’affari. Utilizzando un campione di aziende (italiane, italiane con branch all’estero e branch italiane di aziende estere) eterogenee per dimensioni e industies, vengono esaminati: i criteri di determinazione del costo del servizio, le attività esternalizzate, la spesa annua destinata alla consulenza esterna, il costo orario dei servizi per ogni area d’attività legale, i criteri di selezione degli advisor e quelli di misurazione delle performance. Individuando la tipologia di studio (italiani full service, italiani boutique, internazionali e monopractice) utilizzata per ogni area di attività e l’incidenza della reputazione dello studio nella determinazione del costo. Una ricerca pionieristica, il cui obiettivo è quello di stabilire parametri certi, che ad oggi non esistono, gettando trasparenza su una zona grigia del settore. Per orientare le decisioni delle direzioni legali da una parte; e dall’altra costringere gli studi a ragionare sul valore aggiunto.
L’assunto di partenza è uno: affinché domanda e offerta si muovano in ottica evolutiva non si può prescindere dalla consapevolezza che ci sono dei benchmark. Così come non si può ignorare che ci sono delle eccezioni ai benchmark. Sia eccezioni in eccesso, con studi o professionisti che – a dispetto dei tempi che cambiano – sono riusciti a guadagnarsi rendite di posizione tali per cui possono ancora strappare tariffe stellari alle aziende. Sia in difetto, con altre insegne pronte a vendere la propria consulenza a prezzi di saldo, attuando una politica di dumping.
Mettere a nudo i benchmark, quindi, renderà possibile capire gli effetti che l’assenza di trasparenza ha portato in termini di concorrenza e competitività tra law firm. Con effetti benefici per quelli studi che sapranno cogliere la sfida, vedendola come un’opportunità per capire come si muovono i loro concorrenti e sviluppare una strategia ad alto valore aggiunto.
D’altro canto, gli effetti non potranno che essere benefici anche sul fronte della domanda, favorendo lo sviluppo della figura e del ruolo del responsabile legale: se gestire il budget rappresenta un potere, avere un’idea chiara dei costi fa aumentare questo potere.
Forse così in futuro si potrà innescare un circolo virtuoso per l’evoluzione del rapporto advisorcliente, perché è auspicabile credere che fornire degli strumenti di analisi oggettiva possa essere una scintilla in grado di innescare una riflessione di sistema sul trittico prezzo-qualità-valore.
Benchmarking: strumento di sviluppo
Dai primi dati che emergono dalla ricerca condotta dal Centro Studi TopLegal, alcune risposte appaiono sorprendenti. Uno dei risultati che taglia trasversalmente il campione di direzioni affari legali contattate è la predominante soggettività su cui si basa l’individuazione del prezzo che si è disposti a pagare per un determinato tipo di servizio. Ogni direttore affari legali ha un proprio metodo per stabilire quanta parte della spesa legale destinare a uno specifico servizio e a quale advisor esterno affidare quella consulenza perché non ci sono prassi consolidate e parametri a cui fare riferimento. «So che forse alcuni utilizzano degli indicatori a conclusione del mandato (tempi, rapporto qualità/costo), ma sono una rarità. Alla fine la scelta è assolutamente soggettiva », commenta un General counsel. Ed è questa la risposta più comune.
Sono pochissimi quelli che affermano di valutare, al termine della prestazione, indicatori come tempistica, risultato raggiunto, disponibilità e capacità di lavorare in team; e soltanto un intervistato rivela di aver elaborato uno strumento di vendor management finalizzato proprio a sviluppare criteri di valutazione oggettiva dei collaboratori esterni. «La valutazione viene fatta una volta all’anno su tutti i nostri consulenti. E prevede tre step: valutazione delle prestazioni (quindi i successi), delle tempistiche e poi c’è una valutazione soggettiva del rapporto. Anche quest’ultimo assume una valenza oggettiva che produce un risultato attraverso il quale decidiamo se continuare o meno la collaborazione», afferma.
Nella maggior parte dei casi, invece, come emerso anche nel corso dell’annuale appuntamento con la TopLegal General Counsel Agenda 2014, gli inhouse cercano di controllare la spesa preventivamente, attraverso la netta prevalenza di tariffazioni flessibili come il forfait e la fee con cap. «In questo modo ci garantiamo cifre chiare, che permettono di fare una stima della spesa annuale, con un vantaggio economico che può arrivare al 40-50% », viene sottolineato nel corso di un’intervista. Come controllo a posteriori, invece, ci si limita a escludere i consulenti se i prezzi non sono congrui, se le parcelle vengono gonfiate rispetto al prezzo pattuito e se il rapporto qualità/costo non è reputato convincente.
Il problema in tutte queste situazioni, però, è che – mancando dei parametri oggettivi a cui fare riferimento – ogni valutazione risulta aleatoria. Avere un benchmarking sui prezzi pagati in consulenza esterna da un campione di direzioni legali (eterogenee per dimensioni e industry) consentirebbe, invece, di adottare dei criteri oggettivi. Con una serie di risultati positivi.
Anzitutto, il risultato più immediatamente percepibile sarebbe la maggiore facilità di negoziare i prezzi, avendo come punto di riferimento i costi medi prevalenti sul mercato. Cosa che migliorerebbe anche il controllo sulle spese impreviste, da sempre le più temute. Infatti, ci sono costi legati ad alcune tipologie di consulenza (tax e penale per citarne due) dove per stessa ammissione degli in-house «c’è un po’ di diffidenza a condividere informazioni sui servizi ottenuti dagli studi legali ». E in cui, quindi, aumenta il tasso di soggettività. Agli in-house, invece, i vertici aziendali chiedono sempre più oggettività, orientamento al business e bilanci di spesa precisi.
Avendo dei benchmark di riferimento, i General counsel potrebbero costruire una proiezione più attendibile della spesa legale da presentare all’amministratore delegato o al Cda. E in un mercato in cui il giustificativo di spesa la fa da padrone, poter portare in Cda dei dati non basati esclusivamente su valutazioni soggettive, ma su un’analisi comparata del mercato di riferimento, sarebbe un vantaggio non trascurabile. Un benchmarking di riferimento, quindi, consentirebbe al General counsel di avvicinare la sua lingua a quella del business. E non solo.
Da un punto di vista di allocazione del lavoro, avere un quadro più chiaro sulle modalità di gestione della spesa legale di altre direzioni potrebbe fornire spunti interessanti anche per una migliore gestione di lavoro e risorse. Sapere come varia il costo legale in base alla tipologia di studio interpellato ( boutique, full service, internazionale) e alla materia per cui lo si interpella può risultare senz’altro utile per capire quando allocare il lavoro a una tipologia di studio o a un’altra, piuttosto che all’interno dell’azienda, per gestire nella maniera più efficiente possibile la spesa complessiva. In una prospettiva di evoluzione virtuosa di questa dinamica, si potrebbe arrivare all’introduzione di nuovi studi all’interno del panel di riferimento aziendale, creando al contempo panel più efficienti e meglio strutturati, aprendosi all’innovazione e scardinando le rendite di posizione che fanno la fortuna di alcuni advisor.
In definitiva, quindi, il General counsel potrebbe affinare il suo approccio manageriale e parlare una lingua più vicina a quella del vertice dell’azienda. Cosa che si tradurrebbe in un maggiore potere in capo alla sua funzione.
Benchmarking (1)