Benchmarking (1)

DENTRO LA SPESA LEGALE

Per quanto i prezzi dei servizi legali rappresentino un tabù, non si può ignorare l’esistenza dei benchmark. Accendere un faro sul tema è un passo per l’evoluzione di domanda e offerta. Un potere in mano ai General counsel, una sfida competitiva per gli studi.

20-01-2015

DENTRO LA SPESA LEGALE

Che si tratti di rivedere le logiche che regolano il funzionamento interno alla direzione o quelle che presidia­no alla scelta e al rapporto con i consulenti esterni, l’obiettivo ri­chiesto ai General counsel oggi è una maggiore razionalizzazione dei costi. Gestire il budget è un potere. È per questo che chi con­trolla la spesa legale deve avere un’idea chiara sui parametri in base ai quali farlo. Ma in un mer­cato come quello legale italiano, caratterizzato da una penombra informativa sui prezzi del servi­zio, non ci sono criteri che aiuti­no a razionalizzare la spesa.

Il problema dei General counsel è quello che, a diffe­renza di altri manager azien­dali, si trovano a gestire preva­lentemente costi non destinati a beni tangibili, ma a servizi in­tangibili per i quali non ci sono parametri di riferimento og­gettivi. Ne consegue l’aumento della difficoltà per gli in-house di amministrare al meglio il proprio budget, pianificando la spesa legale e la giusta alloca­zione delle risorse.

TopLegal per questo ha de­ciso di compiere uno studio pilota che servirà a sviluppare un benchmarking delle tariffe vigenti nel mercato legale d’af­fari. Utilizzando un campione di aziende (italiane, italiane con branch all’estero e branch ita­liane di aziende estere) eteroge­nee per dimensioni e industies, vengono esaminati: i criteri di determinazione del costo del servizio, le attività esternaliz­zate, la spesa annua destinata alla consulenza esterna, il costo orario dei servizi per ogni area d’attività legale, i criteri di se­lezione degli advisor e quelli di misurazione delle performan­ce. Individuando la tipologia di studio (italiani full service, italiani boutique, internazionali e monopractice) utilizzata per ogni area di attività e l’inciden­za della reputazione dello studio nella determinazione del costo. Una ricerca pionieristica, il cui obiettivo è quello di stabilire parametri certi, che ad oggi non esistono, gettando trasparenza su una zona grigia del settore. Per orientare le decisioni delle direzioni legali da una parte; e dall’altra costringere gli studi a ragionare sul valore aggiunto.

L’assunto di partenza è uno: af­finché domanda e offerta si muo­vano in ottica evolutiva non si può prescindere dalla consapevolezza che ci sono dei benchmark. Così come non si può ignorare che ci sono delle eccezioni ai benchmark. Sia eccezioni in eccesso, con studi o professionisti che – a dispetto dei tempi che cambiano – sono riusciti a guadagnarsi rendite di posizione tali per cui possono an­cora strappare tariffe stellari alle aziende. Sia in difetto, con altre insegne pronte a vendere la pro­pria consulenza a prezzi di saldo, attuando una politica di dumping.

Mettere a nudo i benchmark, quindi, renderà possibile capire gli effetti che l’assenza di tra­sparenza ha portato in termini di concorrenza e competitività tra law firm. Con effetti bene­fici per quelli studi che sapran­no cogliere la sfida, vedendola come un’opportunità per capire come si muovono i loro concor­renti e sviluppare una strategia ad alto valore aggiunto.
D’altro canto, gli effetti non potranno che essere benefici anche sul fronte della doman­da, favorendo lo sviluppo della figura e del ruolo del responsa­bile legale: se gestire il budget rappresenta un potere, avere un’idea chiara dei costi fa au­mentare questo potere.

Forse così in futuro si potrà innescare un circolo virtuoso per l’evoluzione del rapporto advisor­cliente, perché è auspicabile cre­dere che fornire degli strumenti di analisi oggettiva possa essere una scintilla in grado di innesca­re una riflessione di sistema sul trittico prezzo-qualità-valore. 


Benchmarking: strumento di sviluppo 
Dai primi dati che emergono dalla ricerca condotta dal Centro Studi TopLegal, alcune risposte appaiono sorprendenti. Uno dei risultati che taglia trasversal­mente il campione di direzioni affari legali contattate è la pre­dominante soggettività su cui si basa l’individuazione del prez­zo che si è disposti a pagare per un determinato tipo di servizio. Ogni direttore affari legali ha un proprio metodo per stabilire quanta parte della spesa legale destinare a uno specifico servi­zio e a quale advisor esterno af­fidare quella consulenza perché non ci sono prassi consolidate e parametri a cui fare riferimento. «So che forse alcuni utilizzano degli indicatori a conclusione del mandato (tempi, rapporto qualità/costo), ma sono una ra­rità. Alla fine la scelta è assolu­tamente soggettiva », commenta un General counsel. Ed è questa la risposta più comune.


Sono pochissimi quelli che affermano di valutare, al termine della prestazione, indicatori come tempistica, risultato raggiunto, disponibilità e capacità di lavorare in team; e soltanto un intervistato rivela di aver elaborato uno stru­mento di vendor management finalizzato proprio a sviluppare criteri di valutazione oggettiva dei collaboratori esterni. «La valuta­zione viene fatta una volta all’an­no su tutti i nostri consulenti. E prevede tre step: valutazione del­le prestazioni (quindi i successi), delle tempistiche e poi c’è una va­lutazione soggettiva del rapporto. Anche quest’ultimo assume una valenza oggettiva che produce un risultato attraverso il quale deci­diamo se continuare o meno la collaborazione», afferma.

Nella maggior parte dei casi, invece, come emerso anche nel corso dell’annuale appunta­mento con la TopLegal General Counsel Agenda 2014, gli in­house cercano di controllare la spesa preventivamente, attraver­so la netta prevalenza di tariffa­zioni flessibili come il forfait e la fee con cap. «In questo modo ci garantiamo cifre chiare, che per­mettono di fare una stima della spesa annuale, con un vantaggio economico che può arrivare al 40-50% », viene sottolineato nel corso di un’intervista. Come controllo a posteriori, invece, ci si limita a escludere i consulen­ti se i prezzi non sono congrui, se le parcelle vengono gonfiate rispetto al prezzo pattuito e se il rapporto qualità/costo non è reputato convincente.

Il problema in tutte queste si­tuazioni, però, è che – mancan­do dei parametri oggettivi a cui fare riferimento – ogni valuta­zione risulta aleatoria. Avere un benchmarking sui prezzi pagati in consulenza esterna da un cam­pione di direzioni legali (eteroge­nee per dimensioni e industry) consentirebbe, invece, di adottare dei criteri oggettivi. Con una se­rie di risultati positivi.
Anzitutto, il risultato più immediatamente percepibile sarebbe la maggiore facilità di negoziare i prezzi, avendo come punto di riferimento i costi medi prevalenti sul mercato. Cosa che migliorerebbe anche il controllo sulle spese impre­viste, da sempre le più temute. Infatti, ci sono costi legati ad alcune tipologie di consulenza (tax e penale per citarne due) dove per stessa ammissione de­gli in-house «c’è un po’ di dif­fidenza a condividere informa­zioni sui servizi ottenuti dagli studi legali ». E in cui, quindi, aumenta il tasso di soggettività. Agli in-house, invece, i vertici aziendali chiedono sempre più oggettività, orientamento al bu­siness e bilanci di spesa precisi.


Avendo dei benchmark di riferimento, i General counsel potrebbero costruire una pro­iezione più attendibile del­la spesa legale da presentare all’amministratore delegato o al Cda. E in un mercato in cui il giustificativo di spesa la fa da padrone, poter portare in Cda dei dati non basati esclusiva­mente su valutazioni soggetti­ve, ma su un’analisi comparata del mercato di riferimento, sa­rebbe un vantaggio non tra­scurabile. Un benchmarking di riferimento, quindi, consenti­rebbe al General counsel di av­vicinare la sua lingua a quella del business. E non solo.


Da un punto di vista di al­locazione del lavoro, avere un quadro più chiaro sulle modali­tà di gestione della spesa legale di altre direzioni potrebbe for­nire spunti interessanti anche per una migliore gestione di lavoro e risorse. Sapere come varia il costo legale in base alla tipologia di studio interpellato ( boutique, full service, inter­nazionale) e alla materia per cui lo si interpella può risultare senz’altro utile per capire quan­do allocare il lavoro a una tipo­logia di studio o a un’altra, piut­tosto che all’interno dell’azien­da, per gestire nella maniera più efficiente possibile la spesa complessiva. In una prospettiva di evoluzione virtuosa di questa dinamica, si potrebbe arrivare all’introduzione di nuovi studi all’interno del panel di riferi­mento aziendale, creando al contempo panel più efficienti e meglio strutturati, aprendosi all’innovazione e scardinando le rendite di posizione che fan­no la fortuna di alcuni advisor.

In definitiva, quindi, il Ge­neral counsel potrebbe affi­nare il suo approccio mana­geriale e parlare una lingua più vicina a quella del vertice dell’azienda. Cosa che si tra­durrebbe in un maggiore pote­re in capo alla sua funzione.


TOPLEGAL DIGITAL

Scopri TopLegal Digital, nuova panoramica sull’attualità del mondo legal, finance e aziendale

 

Sfoglia la tua rivista gratuitamente


TopLegal Digital
ENTRA