Editoriale

DI LEGISTI E LEGHISTI, O L'AVVOCATO AL POTERE

Siamo passati dal tifo sportivo dell’era berlusconiana alla battaglia legale nel nome del popolo. Dalla tribuna al tribunale

24-07-2018

DI LEGISTI E LEGHISTI, O L'AVVOCATO AL POTERE

di Marco Michael Di Palma

 

Sembrava tramontata l’avventura politica degli avvocati da quando erano tornati in auge al parlamento con il primo governo Berlusconi. L’impegno politico non sembrava più suscitare l’entusiasmo degli avvocati. Invece no. La nomina di Giuseppe Conte (in foto) alla guida del nuovo governo ha indotto più di un collega a congratularsi sull’avvocatura al potere. Inoltre, la sua ascesa interesserebbe entrambe le anime dell’avvocatura. Nel curriculum di Conte si apprende che, prima di avviare uno studio legale con Guido Alpa tra il 1999 e il 2002, l’avvocato esercitava la professione presso l’allora Gianni Origoni & partners.

Oltre a Conte, altri tre colleghi sono stati chiamati a ministri della XVIII legislatura. Per definire questa nuova classe dirigente, la stampa ha parlato della casta di “giurocrati” a proposito dei giuristi che si trasformano in funzionari della cosa pubblica. Più positivo l’atteggiamento della categoria forense che vede in Conte una grande opportunità per ridare nobiltà alla professione. Di fronte a un establishment sfilacciato e messo nell’angolo, i colleghi si auspicano di essere classe dirigente, seria, preparata e non influenzabile con l’augurio di dare pregio e risalto alla funzione sociale dell’avvocato.

Le prime dichiarazioni del neo presidente del consiglio hanno fatto ben sperare. “Mi propongo a voi, e attraverso voi, come avvocato che tutelerà l’interesse dell’intero popolo italiano,” ha detto Conte durante il suo discorso inaugurale al Senato. Ma non tutti hanno accolto con favore questa dichiarazione. Diversi hanno intuito il suo lato oscuro. In effetti, l’avvocato del popolo che coglie nelle sue mani i diritti dei cittadini non ha precedenti storici proprio felici. Il difensore di oggi può facilmente trasformarsi nell’oppressore di domani anche se il rischio di un Conte eversivo alla Robespierre sembra lontana come possibilità.

L’avvocatura al potere invece ha subito dato prova dei suoi limiti tanto banali quanto caratterizzanti e non solo nella retorica ma anche nei metodi. In primis la solita autoreferenzialità. I giornali – soprattutto quelli esteri – si sono divertiti a raccontare (e a deridere) l’esordio del presidente-avvocato al summit europeo tenutosi a qualche settimana della sua investitura. Conte metteva una riserva sulle questioni routinarie di sicurezza e di commercio fino a quando non fosse chiarita la questione dell’immigrazione. A un diplomatico spiegava: "Nulla è concordato finché tutto è concordato", echeggiando così il mantra dell’ex ministro della Brexit e capo negoziatore britannico nonché sommo esperto delle improvvisazioni, David Davis. Secondo il Financial Times, Conte avrebbe poi insistito che "da avvocato” poteva concludere l’accordo solo quando tutti i punti fossero stati ultimati. Il primo ministro svedese Stefan Lofven gli replicava che come ex "saldatore" sapeva che nessuno dei punti poteva tenere insieme. Anche il premier bulgaro ha visto opportuno intervenire per calmare le acque, lui invece in veste di "ex pompiere".

Ogni epoca ha la sua metafora che raccoglie la contrapposizione politica. Siamo passati dal tifo sportivo dell’era berlusconiana alla battaglia legale nel nome del popolo. Dalla tribuna al tribunale, insomma. 

In modo del tutto appropriato quindi il legista di Palazzo Chigi è diventato l’avvocato di un “contratto di governo”. Nulla di nuovo nel diritto come continuazione del conflitto politico con altri mezzi. Già nell’Ottocento Tocqueville osservava come negli Stati Uniti “non c’è quasi questione politica che non finisca presto o tardi in una questione giudiziaria”. Tocqueville vedeva nello spirito giuridico capace di permeare tutta la società un contrappeso salutare della democrazia e un freno moderatore alle passioni impulsive e alla presunzione dei rivoluzionari di poter fare tabula rasa della storia. Lo spirito giuridico che aleggia in questi giorni invece ha la pretesa di colmare un vuoto delle istituzioni. 

Siamo lontani dal contratto tra governanti e governati come da tradizione: accantonando il principio di rappresentanza i governanti ora contraggono con sé stessi. Niente più programma politico, basta un contratto firmato dai Signori Salvini e Di Maio davanti al notaio. Il contratto prevede inoltre che nel caso “emergano divergenze per quanto concerne l’interpretazione e l’applicazione del presente accordo” e, inoltre, “nel caso in cui le divergenze persistano, verrà convocato il Comitato di conciliazione”. I conflitti saranno quindi risolti non in parlamento né in consiglio dei ministri ma da un organo privato anche esso rimesso a un accordo tra privati.

Se la politica è caduta in mano agli avvocati, il diritto a sua volta è stato asservito all’economia e alla finanza globalizzate. Il revanchisme del nostro attuale populismo starebbe tutto lì. Per una coalizione politica che ha fatto della separazione manichea tra popolo-vittima ed élite truffaldina la sua logica fondante, potrebbe creare qualche dissonanza mettere alla guida del governo un cattedratico capace di presentarsi con 12 pagine di curriculum contenente più di un’affermazione ambigua. Ma questo è solo l’inizio. Una demagogia che rischia di contrapporre lo stato sociale allo stato di diritto non può che finire male. 

 

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Gianni & Origoni GuidoAlpa, GiuseppeConte


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