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Diventare general counsel

Umberto Baldi, gc di Fincantieri, spiega le competenze chieste per il ruolo

16-10-2018

Diventare general counsel

 

L’ascesa del ruolo del general counsel ha comportato per i legali interni selezioni più dure e modalità di ingaggio diverse. Quali sono le competenze e i profili richiesti? In cima alla lista non possono mancare: una buona esperienza come avvocato in uno studio legale, una formazione da generalista e spiccate capacità di decision making. TopLegal ne ha parlato con Umberto Baldi, general counsel di Fincantieri che, nell’ambito della Conferenza annuale dell’Iba a Roma, è intervenuto nella tavola rotonda: “The rise of general counsel: impacts on the legal profession”.

La premessa è il cambio ormai maturato nella figura del giurista di impresa: da manager di avvocati esterni e amministratore degli affari societari, quindi con un ruolo più amministrativo, a vero “chief corporate lawyer”, con una conoscenza completa della storia dell’azienda e delle interazioni tra questioni legali e business. «Il cosiddetto trusted counsel, il consigliere di fiducia, sta spostandosi dal senior partner dello studio esterno al chief legal officer interno», dice Baldi, rilevando come questa trasformazione sia stata accompagnata anche da un mutamento delle condizioni ambientali. Da un lato il cambio di status del legale interno che oggi può essere iscritto all’Albo, sul modello del mondo anglosassone; dall’altro, l’elemento scatenante degli scandali societari internazionali (quali per esempio Enron negli Usa e Siemens in Germania), che hanno portato il legislatore ad aumentare le incombenze in capo alle società in termini di controlli interni, compliance, procedure (rendendo quindi più conveniente internalizzare il “talento” piuttosto che esternalizzare tutto). 

Ecco che il general counsel diventa un uomo chiave in termini di competenze e di business, per il quale le realtà più strutturate hanno sviluppato piani di successione interna (come per tutti i C-level) «che prevedono — spiega Baldi — seconde, terze e quarte linee, un modello a piramide per avere sempre qualcuno pronto. Per farlo è importante sviluppare modelli di meritocrazia solidi». 

La fase di selezione è quindi sempre più accurata. «Oggi le selezioni sono più dure e ci sono modalità di ingaggio diverse dal passato. A seconda delle società e delle attività — dice Baldi — ci possono essere delle specializzazioni più o meno utili. Per esempio, la sede locale di un service provider internazionale potrebbe privilegiare profili Ip. Ma se ci si sposta alla casa madre, alla multinazionale, allora il general counsel è un generalista».

Il percorso ideale per arrivare con le carte in regola alla selezione è formarsi in fieri: il che significa, partendo come specialista, aggiungere mattoncini man mano in un percorso che preveda sia esperienza in studio sia in azienda. «Uno specialista di M&a e Capital markets — suggerisce Baldi — dovrebbe trascorrere 5-6 anni nello studio per poi passare in house per aggiungere altri mattoncini. Dopo dieci anni, cinque fuori e cinque dentro, possiede la verticalità dello specialista e l’orizzontalità del generalista».

Ci sono però soft skill che è complesso imparare. Tra queste, il giusto bilanciamento nel decision making tra “l’uomo del no” e lo “yes man”. «Spesso, per la sua natura di “controllore”, il general counsel è un decision maker al negativo. Tuttavia, la virtù sta nel mezzo: se di fronte agli obiettivi del business si sollevano sempre problemi, che dovranno risolvere poi altri all’esterno, si danneggia l’azienda; se si dice sempre sì, si spinge l’azienda verso eccessivi rischi.  Al nuovo general counsel è chiesto di porsi con un atteggiamento cooperativo, aiutando a strutturare le operazioni in modo da raggiungere l’obiettivo». 

 

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