Fare wealth management equivale a dirigere un’orchestra. Significa saper gestire al meglio un patrimonio attraverso il coordinamento di una moltitudine di strumenti: dall'acquisto di una casa, all’assistenza legale, alla compravendita di partecipazioni societarie o di opere d’arte. In Italia, fare wealth management comporta una sfida in più. Perché in molti casi non significa soltanto occuparsi di allocazione di asset o amministrazione del patrimonio, ma vuol dire anche dover fare educazione finanziaria. Il motivo è presto detto: la maggior parte dei clienti che producono un reddito tale da permettere processi importanti di patrimonializzazione sono imprenditori titolari di Pmi, per i quali delegare ad altri la gestione della loro ricchezza è difficile al pari di delegare la gestione delle loro aziende. Eppure, il tema del passaggio generazionale e dei patrimoni di questi imprenditori rende l’Italia un paese estremamente attrattivo per chi si occupa di wealth, che si tratti di banche o di studi legali, che sempre più frequentemente aprono dipartimenti ad hoc.
I trend globali del wealth management
Il World Wealth Report di Capgemini è uno dei principali strumenti di benchmarking per identificare la fisionomia e i bisogni dei protagonisti del wealth management, gli high net worth individual (Hnwi), vale a dire coloro che hanno investito 1 milione di dollari o più in asset, beni da collezione, beni di consumo e beni durevoli. Nel 2016, in base al World Wealth Report 2017 di Capgemini, la popolazione degli high net worth individuals e i loro patrimoni hanno toccato i massimi storici a quota, rispettivamente, 16,5 milioni e 63,5 mila miliardi di dollari. Un tesoretto che, secondo il report, frutta elevati profitti ai gestori patrimoniali, che si aggirano in media attorno al 24,3% degli investimenti. Tanto da aver destato l’interesse delle BigTech, che stanno valutando il proprio ingresso sul mercato dei servizi per la gestione patrimoniale. Dal report emerge che più della metà degli Hnwi (56,2%) afferma di essere propensa a utilizzare i servizi per la gestione del patrimonio offerti dalle BigTech, da cui si aspetta maggiore efficienza, trasparenza, innovazione ed eccellenti funzionalità online. Secondo il report, se le BigTech dovessero decidere di entrare nel settore del wealth management potrebbero fungere da partner per le compagnie di gestione patrimoniale, aiutandole ad aumentare il grado di soddisfazione degli Hnwi. La collaborazione tra le aziende di wealth management e le Big Tech potrebbe portare a una rivoluzione diffusa all’interno del settore. Ma in futuro potrebbe anche evolvere in una vera e propria concorrenza. Di conseguenza, avverte Capgemini, è indispensabile che i gestori patrimoniali si concentrino sullo sviluppo delle proprie capacità in tecnologie di scala, per riuscire a mantenere un vantaggio competitivo rispetto a qualsiasi iniziativa sul mercato da parte di una BigTech.
Cresce l'interesse per l'arte
Un altro filone estremamente interessante per chi si occupa di wealth management è tracciato da Deloitte nel suo Art & Finance Report 2017. Quando nel 2011 fu lanciata la prima edizione dell’Art & Finance Report, appena il 30% degli wealth manager intervistati dichiarò di star valutando con attenzione la creazione di servizi legati all’arte come asset. Oggi siamo al 60 per cento. Ma non solo: il 64% li sta già offrendo. E, solo nell’ultimo anno, sono arrivati all’88% (più 10% rispetto all’anno precedente) i manager convinti che tali servizi debbano essere assolutamente offerti come parte integrante del pacchetto proposto per la gestione dei capitali. Un cambiamento, quello descritto da Deloitte, che parte dalla consapevolezza che gli investimenti in arte non sono un fenomeno passeggero, ma un trend di lungo termine che non può essere trascurato da chi oggi, a vario titolo, si occupa della gestione dei grandi patrimoni.
Italia, bisogna creare cultura
Se le normative italiane non sono semplici per definizione e non sempre agevolano il settore – la Tobin tax (imposta sulle transazioni finanziarie) è un esempio su tutte – il vero limite del wealth “all’italiana” è costituito da un tipo di approccio che permea il tessuto imprenditoriale. In Italia la ricchezza c’è e potrebbe essere approcciata meglio, ma occorrerebbe un cambiamento culturale dei clienti Pmi, che costituiscono l’ossatura del Paese ma hanno ancora l’abitudine di affrontare i problemi quando si presentano. Bisognerebbe formare una cultura del wealth, anche da un punto di vista legale. Infatti, anche se si sta costituendo uno zoccolo duro di studi con forti dipartimenti specializzati nella materia, proprio poiché la maggioranza dei clienti wealth è rappresentata da imprenditori della Pmi, i consulenti tipici sono commercialisti che possiedono tutto lo storico delle vicissitudini dei loro assistiti, ma, per contro, a volte sono meno sofisticati di advisor con una specifica specializzazione nel comparto.
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