Approfondimenti

Equity o no?

Il dilemma sullo status di socio divide le insegne. Pro e contro di una scelta dalle molte sfaccettature

10-09-2019

La scelta tra equity o meno non è una questione meramente formale. Incide in maniera sensibile sulle sorti dello studio in termini di strategia, posizionamento, cultura interna. E, in definitiva, sui margini che lo studio si prefigge. Ma gli elementi a favore e contrari possono essere letti da punti di vista diversi ed esprimere conclusioni opposte. Ecco che dall’indagine sulla governance effettuata da TopLegal su un panel di 22 studi è emerso uno scenario sostanzialmente diviso a metà: circa undici studi si sono detti espressamente a favore di tale distinzione, nove hanno indicato di essere contrari e due non si sono espressi sul punto.

Quali le ragioni degli uni e degli altri? Da un lato, si evince la necessità di dare flessibilità alla partnership, dall’altro quella di ridurre le differenze tra i soci in vista delle nuove sfide del mercato.

 Meno differenze tra i soci

 Chi si dice convinto dell’utilità di dividere in equity e salary, vede tale distinzione come uno strumento utile per aprire la partnership a coloro che «pur avendo dimostrato di possedere una buona dose di talento, non hanno ancora sviluppato un business case da equity partner». Il “salary part- ner” è quindi visto come una fase intermedia utile per agevolare la crescita interna verso l’equity partnership. Tuttavia, lo stesso ragionamento visto da un’altra prospettiva può portare anche a una conclusione ben diversa e, per alcuni, classificare il socio equity come uno strumento di “compromesso”. In altri termini, in questi casi il socio salary è considerato troppo vecchio per rimanere associate, ma con un portafoglio clienti insufficiente per diventare partner. Allo stesso tempo lo studio non può permettersi di lasciare andare una risorsa che ha comunque formato. Il risultato è una partnership leggera che permetta di poter contare su soci funzionali all’assistenza di quei clienti che non esprimono grandi margini ma che garantiscono buoni volumi di fatturato. Si spiega così anche la ritrosia di alcune insegne a differenziare esternamente tra soci equity e soci non equity.

 Questa lettura permette di comprendere perché, tra chi ha scelto una sola categoria di soci, si sia fatta avanti l’idea che la categoria di “socio non equity” comporti una «deminutio nella figura del socio». Tra gli studi che hanno scelto la partnership unica, sia quelli di maggiori dimensioni o quelli a matrice internazionale sia quelli più piccoli italiani, si sta quindi sviluppando la volontà di ridurre le differenze tra le varie classi di soci e di non voler far dipendere «la dignità del professionista » dall’apporto alla partnership.

 La retention dei talenti

 Poter disporre di una categoria di soci salary offre certamente uno strumento di flessibilità per gestire le ambizioni alla partnership di molti giovani professionisti, in ottica di retention dei talenti. Oggi le soglie limite di fatturato per l'accesso alla full equity sono infatti molto difficili da raggiungere. «Unitamente a un abbassamento della soglia di ingresso alla partnership — fa notare uno studio italiano nato nell’ultimo decennio — il salary consente allo studio di far entrare nella partnership anche soci più giovani, che si trovano da subito coinvolti in modo attivo nel governo dello studio».

Ma anche qui la ricetta non è così chiara. Proprio la presenza di una sola categoria di soci potrebbe essere la carta vincente per attrarre, oltre che trattenere, i migliori. A fronte di un profitto per partner equity più alto, basato su una maggiore tendenza all’imprenditorialità e capacità di originare lavoro ad alto valore aggiunto, si alzano le barriere all’ingresso: bisogna evitare i soci improduttivi. Allo stesso tempo, gli inferiori costi legati agli stipendi (per pagare i partner salary) liberano risorse per attrarre quei talenti che assicurano i margini alti.

 Le variabili in gioco

Diversi studi che prevedono la distinzione tra equity e non equity stanno riconsiderando seriamente la scelta, per verificare se è appropriata agli obiettivi e al contesto competitivo dell’insegna. La sola categoria di soci equity è stata per esempio abbracciata da Gattai Minoli Agostinelli, Dla Piper, BonelliErede.

 Un primo dato è che tendenzialmente la sola partnership equity semplifica la governance. Il partner salary crea una situazione ibrida tra la classica associazione professionale e una governance maggiormente ispirata ai meccanismi aziendali. In secondo luogo, ci sono due variabili principali da tenere in considerazione nella scelta. C’è sicuramente un tema di maturazione della realtà associata. «Uno studio che non ha ancora una posizione di leadership e vuole crescere — fa notare un’insegna che ha abolito in tempi recenti la differenziazione — può utilizzare la partnership non equity come elemento di attrazione per giovani promettenti. Se poi lo studio diventa leader e non ha bisogno di attrarre talenti, avere i non equity fa correre il rischio di abbassare l’asticella e creare aspettative a persone che altrimenti non si farebbe diventare soci».

In secondo luogo, il fattore remunerazione gioca anche qui da ago della bilancia di qualunque scelta. «Tutti i soci devono avere una remunerazione funzionale alla massimizzazione del risultato complessivo dello studio», replica così un grande studio italiano al quesito posto sulla bontà o meno di distinguere tra soci equity e non equity. «Riteniamo — ha aggiunto — che questo sia l'elemento più qualificante nella determinazione della remunerazione dei soci, con l'obiettivo di eliminare ogni forma di concorrenza interna a beneficio della massima collaborazione tra soci».

Tra chi ha solo soci equity c’è, infine, chi alza ulteriormente l’asticella verso un rinnovamento più radicale: «In realtà — dice — bisognerebbe modificare radicalmente il modello di governance degli studi legali: il modello delle partnership è lento e farraginoso e non consente di avere dei manager di alto profilo».


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