Commento

Esiste ancora una logica professionale?

La normazione anticoncorrenziale nel settore legale ha partorito un paradosso: la più accanita concorrenza per tutti

23-05-2022

Esiste ancora una logica professionale?

 

di Marco Michael Di Palma

La professione legale è, in teoria, una professione unificata. Chiunque ammesso all'albo degli avvocati può redigere un contratto o un testamento, presentare un'istanza di fallimento o divorzio, redigere un accordo di joint venture o un avviso di espropriazione, difendere un contenzioso brevettuale o patrocinare un processo per lesioni personali. In realtà, la professione forense ha al suo interno un abisso incolmabile. Già negli anni Ottanta, la sociologia americana individuava due emisferi professionali distinti. Gli avvocati statunitensi risiedevano esclusivamente in un emisfero o nell'altro e raramente, se non mai, attraversavano l'equatore. Gli studiosi riconducevano questa polarizzazione alla tipologia degli assistiti: le imprese e lo Stato da una parte, le persone fisiche dall’altra. Nell’Italia conservatrice e corporativista, esistono piuttosto due pianeti che orbitano attorno una disciplina comune.

Una professione legale formalmente unita, ma con interessi e fini che non si sovrappongono. E non solo perché, come sostenevano i sociologi americani, i due mondi assistono clienti diversi e hanno livelli di reddito e prestigio incomparabili, sebbene questi fattori abbiano rilevanza anche da noi. Secondo l’ultimo rapporto Censis sull’avvocatura, i redditi medi dichiarati sono scesi sotto i 38 mila euro, mentre le avvocate ne guadagnano la metà. Numeri da praticante di un grande studio legale. Tuttavia, le disparità sono solo l’effetto di una crisi profonda, non la causa che va ricercata nell’eclisse trenta anni fa della logica professionale. In principio era la professione forense. Gli ammessi guadagnavano da vivere con il controllo assoluto del proprio lavoro che non poteva essere standardizzato né razionalizzato né mercificato. La logica professionale assicurava l’indipendenza dell’avvocato mettendolo al riparo dalla logica di mercato.

A garantire l’indipendenza, la formazione tecnica rigorosamente generalista e ostile alla specializzazione ai comandi di chiunque la pagasse. La duplice protezione dal mercato tutelava gli avvocati dalla concorrenza di altre categorie, ma anche da quella degli avvocati stessi. Tariffe minime, barriera all’ingresso, monopolio sulla certificazione, divieto della pubblicità e dell’accaparramento dei clienti: tutte misure ideate per scongiurare la concorrenza sui prezzi. La logica professionale è rimasta impermeabile fino agli anni Novanta. Poco stimolato dalla concorrenza, l’avvocato d’impresa è ancora un generalista: in un primo momento fiscalista, in quello successivo esperto di diritto societario. Gli studi custodiscono una gestione informale e una governance paternalistica con livelli retributivi altamente disuguali. L'accesso alla partnership è ristretto e solitamente concentrato nelle mani dei soci fondatori e degli eredi.

Forti di un capitale derivante dalla fidelizzazione di pochi clienti di peso, i maggiori studi legali associati a partire dal dopoguerra fioriscono grazie alle rendite di posizione. All’improvviso, le norme che avevano ignorato la globalizzazione si mostrano incapaci di superare le pressioni generate dal mercato e la burocrazia aziendale. Instaurando un processo di armonizzazione che scombussola lo status quo, i grandi studi legali internazionali hanno avuto in Italia il ruolo che solitamente spetta alle direttive dell’Unione europea. I campioni nazionali, insediati storicamente a Roma, Milano e in minor parte a Torino, Genova e Bologna, sono colti impreparati dalla nuova concorrenza. Prima bastava essere buon avvocato e i clienti arrivavano. Ora servono competenze di business e imprenditorialità. Gli studi stranieri importano una cultura organizzativa di frontiera: gestione spersonalizzata e democratica, trasparenza sulle retribuzioni, specializzazione, sviluppo e marketing.

Poiché i professionisti ora competono l’uno contro l’altro, la concorrenza arriva persino all’interno dello studio. Le prospettive di carriera e i compensi dipendono dal numero di ore fatturate ai clienti. Conta la business generation e origination, requisito, come molti altri, non previsto dal galateo forense. Schizzano i passaggi laterali e i clienti seguono quasi sempre il professionista. Gli studi, a loro volta, si concentrano sulle misure per sostenere la propria competitività e stabilità attraverso il managerialismo. La registrazione del tempo lavorato, effettivo controllo continuo sulle prestazioni e misurazione dell’efficienza di ciascun professionista, configura un ulteriore abbandono del principio del lavoro autonomo. Fine atto primo.

La crisi trova una risposta nel patto tacito tra avvocatura tradizionale e quella d’impresa. Il primo conserva il suo potere corporativo istituzionale e politico. In cambio del riconoscimento delle autorità ordinistiche (normativa, deontologia, consigli, cassa), gli avvocati d’impresa si svincolano dalle restrizioni per perseguire fini ipocritamente consentiti. Questo patto ha messo le parti su traiettorie sempre più divergenti danneggiando gli interessi di entrambi e conclamando la crisi della professione. Il secondo atto della crisi inizia nel 2009 e decide la fine dell’oligopolio degli avvocati d’impresa. Da quel momento, gli studi perdono definitivamente la proprietà sui clienti. Non possono più fare i prezzi che vogliono e i redditi diventano imprevedibili. Alla base della rivoluzione, l’ascesa del direttore legale, nuovo punto di riferimento per l’azienda con responsabilità e status in crescita. Attento ai costi, questa figura esige efficienza, impone tariffe alternative, negozia sconti e fa rispettare il budget. Nel frattempo, fa rientrare all’interno della sua direzione sempre più servizi che prima erano la prerogativa dei consulenti esterni. La perdita di potere sul mercato accelera la concorrenza.

La concorrenza, a sua volta, indebolisce e appiattisce i concorrenti. Il tecnico iper specializzato in poco tempo diventa obsoleto. I servizi di frontiera, riservati ai soli innovatori, sono disaggregati, standardizzati e appaltati all’offerente più economico. Giunta a questo punto, la professione legale mantiene due atteggiamenti opposti. L’avvocatura tradizionale segue la sua consueta linea, ignorando l’esperienza di più decenni che dimostra quanto il mercato sia capace di attraversare comodamente tutti i confini nazionali e i modelli normativi. Osteggia il cambiamento e difende a oltranza la purezza professionale negando ogni rapporto mercato-professione. Due esempi su tutti: la battaglia contro le specializzazioni (bloccate da dieci anni) e il lavoro subordinato negato ai monocommittenti (perché non possono esistere avvocati dipendenti di altri avvocati). La categoria ordinistica, sempre più impoverita ed emarginata, passa dal protezionismo all’assistenzialismo. A ogni nuova sfida, gli organismi chiedono ulteriori tutele e aiuti di Stato. Si combatte la proletarizzazione con i ricorsi e i procedimenti disciplinari. Segue la sua linea, ma nella direzione opposta, anche l'élite legale, il sottoinsieme di avvocati ora distante anni luce dall'universo professionale.

Di fronte alle interdizioni rivendicate a nome suo ma quasi sempre contro i suoi interessi, prova indifferenza o acquiescenza. Le cosiddette riforme della professione passano sempre sebbene non abbiano alcuna utilità per risolvere i suoi problemi. Poiché è vietato ogni accostamento all’impresa, rimangono precluse la personalità giuridica dello studio legale, le associazioni a responsabilità limitata, per non parlare delle strutture di capitale permanenti. Condannata a inseguire obiettivi esclusivamente a breve termine, la categoria si concentra, invece, sulle esigenze dei clienti e sul fatturato, l’efficienza e la produttività. Il massimo modello professionale mutuato da questo contesto è incarnato dal lavoratore irrefrenabile, a servizio del cliente e del proprio studio, 24 ore su 24. La parcellizzazione del settore in cui troppi studi si contendono il mercato sull’unica base del prezzo consegna un ulteriore potere contrattuale ai clienti. Paradosso della normazione anticoncorrenziale che ha partorito la più accanita concorrenza per tutti.

 


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