FATTURARE O GESTIRE? QUESTO Ѐ IL PROBLEMA

Solo nelle società di servizi professionali i soci più performanti interrompono la propria attività per fare un altro mestiere

27-09-2016

FATTURARE O GESTIRE? QUESTO Ѐ IL PROBLEMA


Entrare in uno studio legale può essere come entrare in un mondo manicheo, retto da opposizioni radicali che non tollerano sfumature. Uno dei dualismi più tenaci contrappone da sempre la produzione dei servizi e l’amministrazione dello studio, fatturato e gestione. Tranne per un solo caso e per assoluta necessità. Si tratta del cosiddetto producer-manager – più comunemente noto negli studi legali come managing o senior partner – figura quasi maledetta costretta a coniugare due ruoli così lontani l’uno dall’altro. 

Il produttore-gestore, professionista che al contempo genera fatturato e gestisce la macchina, è caratterizzante delle società di servizi professionali (professional services firms) ed emerge proprio in virtù dei suoi successi. Questa figura entra in scena come un deus ex machina quando, a forza di seguire i clienti e vendere servizi, l’associazione giunge a un momento critico per cui bisogna fermarsi, ponderare il futuro dello studio, le sue funzioni e creare un’organizzazione capace di affrontare le sfide. 

Purtroppo, sorgono difficoltà proprio nel momento in cui si desta fra i professionisti la consapevolezza che serva dedicare più attenzione al management. Negli studi legali i soci vengono selezionati per le loro capacità professionali e il fiuto per gli affari, non per il potenziale di gestione. Gli avvocati vogliono assistere il cliente, non risolvere i problemi del capitale umano. Il lavoro professionale ha un riscontro concreto e può dare risultati quasi immediati; la gestione, per contro, sembra qualcosa di intangibile, inafferrabile, invisibile. I risultati inseguiti dai manager sono inoltre meno misurabili e più incerti. Non esistono criteri di riferimento oggettivi per formare i giovani collaboratori. Il manager deve inoltre muoversi in una prospettiva di medio-lungo periodo a cui un avvocato è poco avvezzo; non appena chiama il cliente, quest’ultimo è pronto a mollare tutto. 

Eppure, il managing partner ci vuole e serve. Come fare? Finora, gli studi legali hanno fatto ricorso a tre strade, che si sono rivelate espedienti più che soluzioni. 

Il primo rimedio è di delegare le responsabilità della gestione e della direzione strategica dello studio ai professionisti con maggiore esperienza e maggiori capacità. Al pari di altri mercati, gli studi in Italia hanno sempre propeso per la figura del primus inter pares, considerata l’alternativa meno peggiore. Tuttavia, trasformare in manager chi fattura di più rischia di recare un danno allo studio nonché allo stesso socio incaricato. Mentre lo studio perde un contributo economico importante, ne risente anche il professionista, la cui identità è stata esclusivamente costruita attorno all’attività professionale. Il produttore-gestore sarà un toccasana per lo studio ma, combattuto eternamente tra il dovere di gestire i colleghi e quello di seguire i propri clienti, ha una sorte poco invidiabile. 

Un secondo rimedio consiste nello scegliere il manager tra i soci che producono meno, ma in questo caso gli inconvenienti sono maggiori. Una tale scelta rafforza il disprezzo per il management, già assai diffuso tra gli avvocati, e conferma l’assoluto primato della capacità di originare lavoro. Un managing o senior partner privo di riconoscimento come rainmaker avrà possibilità molto ridotte di guidare i propri colleghi. 

Infine, un’ultima soluzione, sempre più considerata, vede l’ingresso dall’esterno di un manager non-avvocato. Ma questa sembra essere la peggiore di tutte le alternative. Al manager di professione mancano le conoscenze giuridiche e quelle del business legale senza le quali rischia di essere da subito tagliato fuori dalle decisioni strategiche dello studio. Tutt’al più una tale figura può contribuire a rendere più efficiente la macchina amministrativa dello studio, ma al costo di far proliferare la burocrazia, di appesantire la struttura e di introdurre rigidità, tutti elementi che diminuiscono la reattività necessaria per rispondere alle esigenze dei clienti. Nella peggiore delle ipotesi, il manager non-legale rischia di trovarsi isolato dai colleghi ed estraneo allo studio. 

Gli studiosi della gestione teorizzano il problema del produttore-gestore dagli anni Sessanta. L’ultima tendenza di pensiero promossa dalla Harvard Business School, soprattutto nel lavoro di Thomas DeLong, propone un nuovo approccio basato sulla cosiddetta ‘leadership integrata’. Questo modello farebbe confluire i ruoli di produttore e di gestore in un unico soggetto a patto che sappia raggiungere quattro obiettivi: individuare la strategia; garantire l’impegno collettivo; facilitare l’esecuzione; e dare l’esempio personale. Se non vengono raggiunti tutti e quattro gli obiettivi, il modello resta incompleto. 

Il successo della leadership integrata negli studi legali è ancora da verificare. Nel frattempo arriva un nuovo approccio – per di più tutto italiano – volto a superare l’aut aut del producer-manager. L’idea, che era emersa qualche mese fa in un comunicato quasi come un retro pensiero, appartiene a Dla Piper che prevede un nuovo percorso di carriera innovativo per i professionisti che scelgono di non diventare soci. In un’intervista con questa rivista prima dell’estate (TopLegal Review, numero di agosto/settembre), il co-managing partner Michael Kühne ha confermato che, accanto ai futuri equity partner, si formeranno nuove figure dirigenziali con la responsabilità di gestire le funzioni dello studio e assicurare la qualità del servizio. 

Scindendo la produzione e la gestione, lo studio spera di risparmiare ai suoi vertici un ruolo scomodo e discordante. Si evita così di frenare lo sviluppo del business da parte dei soci più performanti e si affidano le responsabilità per la funzione a figure che, a differenza del manager di professione, possono contare sulle conoscenze e sul bagaglio culturale che li accomunano ai colleghi soci. 

L’operazione non è, tuttavia, priva di potenziali controindicazioni. A differenza del modello di leadership integrato, che fa leva sulle forze dell’intera squadra, qui si insiste sulla commistione di due ruoli separati che lascia aperta la questione dell’allineamento degli incentivi. Potrebbe inoltre allontanare dallo scegliere un ruolo dirigenziale la difficoltà di rivendersi in un comparto legale in cui tale ruolo è alquanto sconosciuto. Nondimeno, e al pari di altre misure che stanno sperimentando gli studi legali italiani, l’innovazione di Dla Piper merita di essere seguita con attenzione.

 


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