In queste settimane siamo tornati a occuparci di fatturati. Ma parlare di fatturati induce ad affrontare altresì il tema delle prassi, o della loro mancanza, riguardo alla rendicontazione finanziaria e le storture del comparto legale.
Dal momento in cui, nel lontano 2005, TopLegal raccoglie e pubblica per la prima volta i dati sul giro d’affari delle maggiori insegne italiane, si è creato un divario tra l’obiettivo sostenuto da questa testata di infondere le buone pratiche intorno all’informativa finanziaria da una parte e la chiusura del settore legale dall’altra. Questo divario emerge con nitidezza nel 2014, anno in cui arriva per noi un cambiamento obbligatorio: nell’impossibilità di stabilire le cifre del mercato legale italiano con una soglia di precisione tollerabile per chi vuole dare delucidazioni attendibili e autorevoli, si decide di rinunciare alla velleità di pubblicare qualsiasi stima.
Tuttavia, se le complessità e l’incertezza delle troppe variabili allontanano definitivamente la possibilità di calcolare i numeri, non si rinuncia a portare avanti il progetto di trasparenza coevo con le origini stesse di TopLegal. Al contrario, invece di rischiare di diffondere dati tanto seducenti quanto illusori, si apre uno scenario nuovo per promuovere la trasparenza perseguendo l’unica strada per superare le difficoltà: affidare agli stessi studi legali la responsabilità di dichiarare il proprio fatturato. Per questo motivo e da tre anni, TopLegal si distingue in quanto unica testata che pubblica esclusivamente i dati comunicati dagli studi legali.
Ebbene, questo nuovo corso, bisogna ammetterlo, ha portato risultati altalenanti. Nel 2014, erano solo 39 studi a dichiarare ufficialmente il fatturato; nel 2015 il totale arriva a 53 mentre questo anno si è assestato a 47. Guardando al campione si evince l’assenza dei grandi del mercato italiano (BonelliErede, Chiomenti e Nctm) e altre realtà che hanno un peso importante (Pavia e Ansaldo, Cba, Trifirò). Mentre sono presenti sei studi londinesi, i sono solo due alcuna realtà statunitense.
Permane evidentemente una resistenza diffusa alla rendicontazione e spesso cristallizzata in quelle che eufemisticamente vengono chiamate “politiche interne” di riservatezza. In molti casi, chi non comunica il fatturato, o lo comunica ad anni alterni, vuole velare le oscillazioni degli introiti. Però, non sempre si tratta di una mancanza di trasparenza. Talvolta si attiva anche un meccanismo di difesa contro una concorrenza sleale che vedrebbe il proprio studio penalizzato dai numeri gonfiati dei rivali. In entrambi i casi, però, si continua a confondere la responsabilità verso gli stakeholder con un’attività di marketing che nulla c’entra. Alla base di quest reticenze euesti timori vi è la convinzione che si possa misurare in euro la qualità, il prestigio e il valore di uno studio e quella dei suoi professionisti. A prescindere da qualsiasi considerazione sull’esito delle scelte di posizionamento e dagli obiettivi strategici molto diversi tra di loro. Sarebbe come paragonare i fatturati di Finmeccanica con quelli di Ferragamo e da questo semplice accostamento costatare la superiorità assoluta del primo sul secondo.
Il problema dei numeri abbelliti però è un problema vero con cui questa testata per prima ha dovuto fare i conti. Nel più recente servizio pubblicato l’anno scorso (TopLegal Review, numero di luglio 2015) si sottolineava il paradosso dei bilanci che correvano più del mercato. Non solo: più volte abbiamo rimarcato come le informazioni forniteci dagli studi erano poco attendibili o incoerenti con quanto precedentemente comunicato da loro stessi.
La mancanza di trasparenza è dovuta anche alla volontà di primeggiare che si dimostra totalizzante. Ma voler subordinare così la gestione e la cura della propria reputazione comporta rischi evidenti. Soprattutto per coloro che hanno ambizioni di avvicinarsi al mercato internazionale. Qui dovrebbe essere un’assoluta priorità l’attenzione alla rete di relazioni perché si conquista un valore aggiunto preciso che è la credibilità. Purtroppo non è sepre così.
Di questo tema se ne parlava qualche settimana facon il socio di un grande studio americano che ha diversi rapporti di corrispondenza sull’Italia. Conoscitore del mercato italiano e spesso in viaggio per incontri a Milano, il socio inglese raccontava lo stupore per l’autocelebrazione che sorge immancabilmente in compagnia degli ospiti italiani. Prima o poi spunta il vanto per il successo del proprio studio e l’estrema soddisfazione dei risultati raggiunti (a prescindere dall’uscita di soci o la scarsità di operazioni in cantiere), a differenza dei concorrenti perennemente in difficoltà. Tale atteggiamento, sosteneva il socio straniero, rischia di creare una mistificazione; per la ristretta comunità di consulenti anglo-americani che lavora con l’Italia, affermava, una maggiore trasparenza sulla vera profittabilità degli studi italiani sarebbe un grande passo in avanti in termini di fiducia e di intesa.
Ma torniamo ai nostri fatturati che, per quanto dichiarati, rimangono non comprovati e quindi solo ufficiosi. In fin dei conti, l’unica soluzione per uscire dall’impasse sarebbe una scelta a favore della massima trasparenza con la divulgazione di bilanci certificati dai vertici dello studio. Fin quando non succederà, nessun dato sarà al di sopra di sospetti.
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