Editoriale

FATTURATI E STUDI: QUANDO IL GIRO D'AFFARI NON VALE

Un sistema d’informazione privo di regole sopravanza mentre la categoria sminuisce il suo ruolo da attore economico

25-05-2017

FATTURATI E STUDI: QUANDO IL GIRO D'AFFARI NON VALE

 

Il reporting finanziario non fa progressi fra gli studi legali. Un anno fa, TopLegal Review avvertiva del rischio di un danno reputazionale dovuto a due atteggiamenti tanto diffusi quanto contrastanti. Da una parte, l’uso improprio del fatturato per favorire l’autopromozione, dall’altra il riserbo assoluto. 


In assenza di un obbligo formale di divulgare bilanci certificati, questo giornale aveva auspicato una presa di responsabilità su base volontaria a favore della massima trasparenza. Il nostro appello è rimasto per il momento senza riscontro. Tuttavia il ritorno del nostro osservatorio annuale continua a far discutere.

Coerente con la nuova linea adottata nel 2014, TopLegal non pubblica stime dei fatturati. Con questa scelta abbiamo voluto minimizzare la strumentalizzazione di dati (spesso fantasiosi) per suscitare la curiosità dei lettori. Poiché impossibilitati nel quantificare in modo credibile il giro d’affari senza la certificazione dei bilanci, non ci rimane che continuare a pubblicare dati dichiarati dagli studi ma non comprovati. Tuttavia, questa linea ha il merito di costringere la categoria a fare i conti con la realtà e con le proprie responsabilità. 

Non tutti, però, sono pronti a guardare questo tema in faccia. Restano alcune visioni e interpretazioni distorte intorno alla rendicontazione finanziaria degli studi legali e da cui serve ancora sgomberare il campo.

Secondo una prospettiva, il fatturato non sarebbe un dato indicativo perché, non essendo lo studio legale un’impresa, vengono meno tutti i presupposti per cui il fatturato sarebbe oggetto di un qualsiasi interesse economico. 

Questa tesi è facilmente confutata dalla realtà delle cose. Basta considerare la complessità organizzativa e il comportamento di qualsiasi studio legale arrivato a un certo livello di sviluppo,  che coordina beni e capitali immateriali, una forza di lavoro ed energie imprenditoriali come farebbe qualsiasi impresa. Inoltre, anche lo studio dipende da fattori esterni che condizionano le sue attività: le condizioni di mercato; il progresso tecnologico; il regime politico e quello giudiziario. Nel comparto legale, questi fattori hanno determinato i vari boom che si sono susseguiti negli anni, dall’ascesa del mattone e del private equity alla finanza strutturata e all’energia rinnovabile,  ai quali gli studi legali hanno risposto con l’apertura di nuovi dipartimenti e il rafforzamento delle squadra a suon di lateral per intercettare la nuova domanda. 

Chiaramente, lo studio professionale non è pienamente equiparabile all’impresa, soprattutto per la sua forma associativa che genera una struttura di controllo molto particolare. Ciononostante, la negazione che lo studio sia un’impresa sembra poggiare non sui fatti ma piuttosto su un auspicio per mettere il servizio legale al riparo da cambiamenti che lo trasformino in oggetto di commercio. La volontà di fare astrazione dell’orizzonte economico in cui gli avvocati d’impresa si muovono è motivata, in fondo, da una falsa dicotomia tra professione intellettuale e mercato. 

Ma c’è di più. Secondo un’altra prospettiva, il fatturato di uno studio legale non sarebbe indicativo in quanto dato altamente variabile che scaturisce da condizioni del tutto aleatorie. Ebbene, è vero che si possono registrare picchi di crescita che si rivelano ineguagliabili grazie alla concomitanza di più mandati e che questi non si presentano tutti gli anni, quando bisogna contare invece sull’attività ordinaria. 

Il fatturato variabile, fenomeno del tutto consueto per le imprese, non dovrebbe però impensierire più di tanto, se non fosse per un corollario del tutto estraneo alla questione ma che fa giungere a una conclusione sbagliata. Si attribuisce quindi al fatturato (che può variare per mille motivi) una sola e unica causa: la presunta bravura o mancanza di bravura dei professionisti in quanto solamente tecnici del diritto e non in quanto imprenditori che possono sbagliare le tendenze di mercato, la gestione interna, il reclutamento dei talenti e così via.

Infine, vi è una terza prospettiva che sostiene un’argomentazione circolare. Non serve comunicare il proprio fatturato poiché non vi è l’obbligo di farlo. E qui torniamo alle storture delle prassi esistenti che generano un rischio reputazionale per chi guarda con disinteresse o tollera volentieri la diffusione in ambito pubblico di illusorie e fantasiose stime sui propri numeri. Studi che in altre occasioni non esiterebbero a prevenire o contrastare approssimazioni per tutelare la propria attività e immagine rimangono inspiegabilmente indifferenti nei confronti dei dati attribuiti loro nonché dell’attenzione pubblica generata.

Questi tre ragionamenti fanno trasparire la mancanza di consapevolezza di appartenere a un sistema economico, di essere attore economico. E questo in un contesto in cui la rendicontazione diventa sempre di più elemento distintivo dell’esercizio imprenditoriale. Quest’anno, con il recepimento della direttiva non-financial, le società dovranno integrare nel bilancio gli elementi sociali, ambientali e di governance distintivi della loro attività. I consulenti legali si troveranno così due passi indietro rispetto ai loro clienti.

Lo studio legale associato avrebbe ottime possibilità per emergere come modello di sviluppo per il Paese. In un panorama colmo di inefficienza e corruzione, in cui aumentano il numero di imprese attaccate alla macchina dell’ossigeno statale, gli studi legali rappresentano un modello di sviluppo diverso, permeabile alle best practice e all’organizzazione moderna in grado di puntare all’internazionalizzazione.

Tra alcuni professionisti spicca una voluta emarginazione dal sistema economico. Ma l’occasione sarebbe buona per una prova di coraggio. 


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