Contro le aspettative, il mercato legale italiano nel 2014 è tornato a crescere. Stando al nostro campione di 53 studi che hanno fornito dati ufficiali, nel 2014-2015 sono aumentati fatturati (5,2%) e utili (8,9%).
In crescita, anche se in misura ridotta (4,8%), i ricavi delle primarie insegne appartenenti all'indice TL25. Nell'esercizio precedente, i fatturati registravano un aumento del solo 0,9% e gli utili un calo del 6,1%, mentre i fatturati della TL25 erano fermi allo 0%. Inoltre, il rapporto tra soci equity e professionisti degli studi TL25 cessa di accorciarsi per la prima volta in sei anni, attestandosi su una media del 1:4,5. Infine, l'incremento dei praticanti nei maggiori studi, con un aumento in media del 24%, indicherebbe che si è tornati a investire sul futuro.
Mentre sembra che si sia usciti dallo stallo economico registrato nel 2013-2014, i dati suggesriscono che anche la fase dei tagli a cui abbiamo assistito in questi anni sia stata altrettanto superata. Con la crisi gli studi sono intervenuti sulle passività della struttura interna, decurtando le squadre per diminuire i costi fissi a vantaggio di incentivi per migliorare le prestazioni individuali. Ora siamo alle soglie di una nuova fase. La ristrutturazione interna sembra terminata, essendo il numero di professionisti piuttosto stabile (semmai in lieve aumento) mentre i soci equity sono in leggera flessione. Sebbene i volumi di mercato stiano tornando, i principali rischi che continuano a pesare sui risultati finanziari sono le incertezze e la variabilità della domanda per la consulenza legale di alto valore.Tuttavia, considerati complessivamente, questi dati rappresentano una rottura con gli anni recenti.
Ciò nonostante, il nostro mercato legale deve fare i conti non solo con i risultati economici ma anche con la trasparenza. Resta il fatto che la maggioranza degli studi declina l'invito a comunicare ufficialmente il proprio fatturato e capita persino che nemmeno i numeri sulle compagini siano esaustivi. Quando non deriva da una semplice distrazione di comunicazione, questa rendicontazione imperfetta proviene da scelte consapevoli: le fantomatiche «politiche interne», per esempio, che vogliono rendere inafferrabile il numero preciso di soci equity per sottrarre alle analisi ogni possibile variazione del patrimonio intellettuale e monetario di base dell'associazione.
Non che manchi la distrazione d'altronde. Come l'incapacità di distinguere fra praticanti e avvocati già abilitati, tutti allegramente sommati insieme nella rosa dei collaboratori. Ma è altrettanto chiaro che ci troviamo di fronte a norme e prassi di reporting ancora in cerca di definizione. Lo si capisce dagli uffici stampa, volti a tutelare solo la propria convenienza e il proprio interesse, disposti a disconoscere il fatturato da loro stessi fornito con la preghiera di comunicarlo come stima mascherata. Lo si capisce anche dalla confusione sulle categorie di professionisti; oltre ai junior, salary ed equity, tra le specie di soci si sarebbe ora aggiunta, secondo un'insegna, anche la categoria del «socio lateral».
Il vuoto di regole istituzionali e di prassi comuni e consolidate tende a far orientare le scelte degli studi secondo principi che nulla c'entrano con gli interessi dei loro stakeholder. Così si spiega che un'insegna possa dichiarare il proprio fatturato ad anni alterni. In questi casi, il rapporto tra mezzo e fine è triangolare a causa della presenza di una mediazione esterna che condiziona l'obiettivo perseguito. È il caso del fondatore che aspira a vedere piazzato il proprio studio in una classifica dei fatturati tra i nomi eccellenti del mercato, confondendo così l'attività di reporting e l'autopromozione e prolungando un modello di interesse individuale e non di sistema.
Articolo pubbliccato in TopLegal Review, numero di luglio 2015