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Fondi di private equity, l’unione fa la forza

Le tendenze del mercato alla fine del terzo trimestre del 2018. Il Made in Italy continua ad attrarre investimenti. Ma l’Italia resta un mercato ristretto rispetto agli altri paesi europei

29-10-2018

Fondi di private equity, l’unione fa la forza

 

Lo scenario del private equity italiano, alla fine del terzo trimestre del 2018, resta stabile per numero e valore delle operazioni. L’interesse dei fondi per le imprese italiane non si arresta davanti all’incertezza politico-finanziaria del paese. Il quadro si complica, però, con l’avanzare della rivoluzione tecnologica che cambia le strategie anche nel mondo del private equity. Queste, in sintesi, alcune delle principali tendenze del mercato emerse dall’ultima edizione dell’Italian Private Equity Conference, tenutasi a Milano il 25 ottobre con la media partnership di TopLegal.

Uno sguardo all’economia italiana
Anche nel 2018, il Made in Italy si conferma fattore di successo. Dopo il picco di investimenti di private equity del 2016 che ha toccato la soglia di 8,2 miliardi di euro, scesi a 4,9 nel 2017, nel primo semestre del 2018 l’ammontare investito ha segnato quota 2,9 miliardi, in crescita del 49% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Numeri che confermano il trend positivo del mercato degli ultimi 5 anni.

Considerando un holding period di 10 anni, le società italiane oggetto di investimenti da parte di fondi di private equity hanno raggiunto fatturato e tassi di occupazione superiori rispetto a quelli di società similari. Nonostante ciò, l’Italia resta il mercato più ristretto in Europa per numero di operazioni. Come si spiega questa apparente contraddizione?

I dati dipendono non tanto dalla situazione di instabilità politica e di incertezza finanziaria del Paese, quanto dal numero e dalla tipologia di operatori attivi sul mercato italiano. Come spiegato a TopLegal da Francesco Giordano, partner di PwC, «purtroppo, il numero di operatori attivi nel mondo del private equity in Italia è il più piccolo rispetto agli altri paesi europei. Questo anche perché la capacità di attrarre funding di fondi pensione, assicurazioni e family office è ridotta rispetto agli altri paesi. Quindi, molti operatori fanno fatica a emergere e questo riduce anche il numero di operazioni fatte sul mercato».

Un fattore di debolezza tipico del Paese è la scarsa presenza di grandi fondi di private equity italiani. «Quello che si auspica – nota Giordano – è che più fondi, che oggi hanno dimensioni medio-piccole, possano unire le proprie forze, cercando di sollecitare l’interesse dei grandi investitori non solo internazionali, ma anche nazionali».

Dal lato del fundraising, ci sono ampi margini di manovra. Secondo Giordano, sull’esempio delle agevolazioni fiscali introdotte dalla Francia negli anni Novanta, «occorre stimolare l’interesse da parte dei grandi fondi pensione italiani a investire nel private equity, piuttosto che in Bot e government bonds». Guardando i dati Aifi (Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt) sulla raccolta del primo semestre 2018 (pari a 1,9 miliardi di euro), tra i soggetti privati la prima fonte sono gli investitori individuali e i family office, che rappresentano il 17%, mentre i fondi pensione seguono con un contributo del 16%. Di questi, un terzo soltanto è di provenienza domestica, con un apporto di soli 64 milioni di euro. Cifre basse, che lasciano l’Italia indietro rispetto agli altri paesi europei.

Attenzione alla rivoluzione tecnologica
Altro fattore chiave del momento è la trasformazione tecnologica dell’economia. Molti operatori riflettono sugli impatti che questa potrà avere in futuro sulle strategie di investimento dei fondi. Un segnale è già evidente dai dati del primo semestre di quest’anno: l’aumento del 23% del numero di operazioni nel segmento early stage. Cioè di quegli investimenti in start-up e imprese nella prima fase del ciclo di vita, che sempre più operano nel settore digitale e sviluppano servizi tecnologici avanzati.

Sempre Francesco Giordano fa notare che: «In Italia c’è stata poca attenzione negli anni passati al tema della tecnologia. Il mercato italiano sta cercando di recuperare, ma i numeri del venture capital e dell’high-tech sono ancora molto piccoli, mentre in mercati più sofisticati come l’Inghilterra sono nati molti soggetti, anche nel mondo universitario, che aiutano le imprese a crescere allocando buona parte delle proprie risorse in questo segmento».

Anche qui, l’unione delle forze tra i fondi sembra essere una strategia vincente. Tuttavia, «uno dei problemi in Italia – ricorda Giordano – è che è previsto un investment ticket molto alto. Bisognerebbe, invece, avere più fondi che investono nell’early stage e nel venture capital con ticket più piccoli e su un numero di imprese più ampio. Anche perché il rischio di insuccesso di questi investimenti è molto più alto». 

 

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