Non sempre le fusioni tra studi si dimostrano operazioni di successo. Il motivo è semplice: ci si dimentica troppo di frequente di una delle variabili più importanti dell’equazione, il cliente. Spesso gli sforzi manageriali sono incentrati su aspetti operazionali come l'unificazione delle piattaforme tecnologiche e dei sistemi di tariffazione, mentre passa in secondo piano l’offerta di servizi.
Finisce così che la maggior parte delle fusioni tra studi legali fallisce nell’obiettivo di fornire un servizio migliore al cliente. È questo il risultato di un report prodotto dalla società di consulenza londinese Gulland Padfield, ripresa da American Lawyer, secondo il quale le fusioni tra studi avvengono più per ragioni difensive che strategiche.
L'aumento di dimensioni che segue alla fusione tra due realtà, secondo la ricerca, si rivela dannoso se il processo non è accompagnato dall’individuazione del valore aggiunto che la fusione genererebbe per il cliente rispetto all'offerta fornita dalle due firm separatamente. Nel caso in cui la fusione non produca valore aggiunto, il risultato potrebbe essere uno studio che finisce per essere poco competitivo nel mercato. La fusione tra insegne, quindi, non è un’operazione alla portata di tutti.
E in Italia? Le grandi fusioni tra insegne di primario standing si contano sulle dita di una mano. Il nostro paese ha sempre guardato con diffidenza alle grandi integrazioni. Ne è prova il fallimento di diversi tentativi di integrazione con studi italiani messi in atto da law firm inglesi e americane, avvenuti a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del ventunesimo secolo. Nel migliore dei casi è stato firmato un accordo di best friendship e, nei peggiori, dopo un’annunciata fusione, il progetto si è poi arenato. Al centro delle difficoltà tra questo tipo d’accordi, c’è spesso stata l’impossibilità di allineare lo spread dell’equity tra i due studi. Nonché la difficoltà di ricondurre la practice italiana alle logiche istituzionali che governano un network internazionale.
In un mercato incentrato sul singolo professionista come quello italiano, è difficile che un name partner possa mettere a rischio il proprio ruolo all’interno dello studio stravolgendo i delicati equilibri in essere con un processo di unificazione con una realtà altrettanto complessa.
Quello che, invece, sembra essere un orientamento consolidato per le realtà italiane, dettato spesso da logiche opportunistiche, è l’uscita del rainmaker da un’insegna alla volta di un’altra o di una propria realtà. La parcellizzazione, molto più che la fusione, è la logica che prevale nel mercato nostrano. Ma anche in questo caso, se non si pondera attentamente il valore aggiunto derivante per il cliente il risultato sarà di dubbio successo. La regola vale tanto nel caso di fusioni quanto in quello di separazioni. Se si fallisce nell’obiettivo di fornire un servizio migliore al cliente, l'operazione non è destinata ad avere successo.