C'è un modello che caratterizza più di altri il modo italiano di interpretare e svolgere l’attività di consulenza legale. Ed è la boutique di eccellenza. Gatti Pavesi Bianchi incarna l’espressione pura e classica di questo modello. Nutrendosi di mandati ad alto valore aggiunto e del rapporto fiduciario e strategico con clienti istituzionali (ceto finanziario in primis) punta a ottenere alti ricavi e alta marginalità.
La scelta di campo è precisa e i suoi perimetri sono stati tracciati a TopLegal dai tre name partner dell’insegna, Francesco Gatti (in foto, a destra), Carlo Pavesi (in foto, a sinistra) e Luigi Arturo Bianchi (in foto, al centro). Gli elementi fondanti sono gli stessi che hanno animano lo studio negli ultimi trent’anni e che sono frutto anche dell’eredità di Carlo d'Urso, scomparso nel 2015, la cui impronta tuttavia rimane forte. «Lo sviluppo attuale – sottolinea più volte nel corso dell’intervista Francesco Gatti – consolida il percorso intrapreso e apre a nuove sfide nel settore della consulenza e assistenza legale. Guardiamo in particolare alle operazioni di maggior complessità, dove l’innovazione diventa l’elemento discriminante».
Innovazione di prodotto, ma non solo. Anche partnership altamente qualificata e indipendenza. Sono queste le tre direttrici per lo sviluppo attuale e futuro. In questo modo, l’insegna si sottrae alla tentazione di uscire dal segmento di mercato di fascia alta e scendere la catena alimentare verso il mid-market, o di ampliare l’offerta secondo logiche full-service. Una tentazione a cui sarebbe facile cedere in risposta alle mutazioni del mercato e della concorrenza, alla minore abbondanza di mandati ad alta marginalità e alla maggiore complessità della domanda di servizi legali, che rende sempre più difficile l’incontro con le risorse e le specialità circoscritte del modello boutique.
Modello: il valore è nelle variabili
Riuscire a costruire operazioni di ingegneria legale mai tentate prima. È questo quello che uno studio dovrebbe essere in grado di fare quando si parla di innovazione di prodotto. E nel track record di Gatti Pavesi Bianchi queste operazioni certamente non mancano. Nel giugno 2011, ha costituito e quotato sul mercato Aim Italia la prima Spac (Special purpose acquisition company) di diritto italiano, un veicolo societario creato e quotato con l’obiettivo di acquisire un’azienda per poi fondersi con essa, facilitandone in questo modo lo sbarco in Borsa. Da allora, quasi tutte le Spac hanno portato la sua firma. Più recentemente, per l’esattezza lo scorso aprile, i tre name partner hanno ottenuto per Telecom un risultato importante al tribunale di Milano, chiedendo la sospensione dell’efficacia di una delibera del collegio sindacale. La cosa non era mai stata tentata prima e ha creato un importante precedente giurisprudenziale. D’altronde, come suggerisce lo stesso Gatti, «innovare vuol dire anche assumersi la responsabilità di rischiare, percorrendo nuove vie. Questa è la vera consulenza». E aggiunge: «Il nostro modello organizzativo ci consente di farlo».
Analizzando l’innovazione di prodotto da un punto di vista organizzativo, la posizione espressa è molto chiara. I soci condividono l’opinione per cui scegliere la strada dell’espansione per riposizionarsi sul full-service rischia di penalizzare l’innovazione. «Quando un’organizzazione diventa molto complessa – precisano – sorge l’esigenza di creare degli standard. La sostenibilità di uno studio con tante practice e tanti professionisti si basa anche sulla capacità di ridurre le variabili (con cui intendono la varietà di approccio alle cose ndr) per ridurre i rischi. Ma a volte è proprio dietro le variabili che si nasconde il valore».
Lo studio non intende diventare un venditore di commodity, anche se ciò può far perdere l’effetto moltiplicatore di valore che si potrebbe costruire su clienti e operazioni, aggiungendo altre practice all’offerta. D’altro canto, l’espansione delle specializzazioni non è esente da rischi: espone al pericolo dello snaturamento del marchio e richiede di scendere a compromessi con la commodity per gestire le esigenze di una macchina più complessa. Invece, come viene chiarito, «la caratteristica dello studio è e rimarrà quella di seguire solo il segmento ad alto valore aggiunto».
Struttura: la piramide si rovescia
Puntare solo su una fetta della torta, tra l’altro quella a maggior valore aggiunto, è una scelta in controtendenza in un momento in cui la maggior parte dei competitor si attrezza per seguire tutta la filiera del valore. E non è l’unica strada contraria imboccata dall’insegna, che si presenta sui generis anche nella struttura. La piramide, per anni simbolo della perfetta strutturazione degli studi legali, in Gatti Pavesi Bianchi si è rovesciata. La compagine senior attualmente rappresenta oltre la metà della struttura. Si parla di 39 figure di alto profilo – divise in 17 soci equity, sette partner, cinque junior partner e dieci counsel – contro 40 associate, alcuni dei quali con elevata seniority. Una strategia che sembrerebbe violare le leggi che da decenni regolano il mercato legale, che vogliono una nutrita compagine di junior messa a lavoro su quasi l’intera filiera del prodotto per ridurre i costi di produzione, poiché, come noto, le figure senior sono quelle che incidono maggiormente sulle casse degli studi. Lo confermano anche i soci di Gatti Pavesi Bianchi che, pur consapevoli che si tratta di una scelta che comporta dei costi di struttura maggiori, sottolineano che tendenzialmente proprio grazie a questo modello riescono a generare una marginalità maggiore.
«Un avvocato dovrebbe essere in grado di portare nel suo studio nuovi problemi e risolverli, possibilmente in maniera innovativa. Avere una struttura senior vuol dire poter contare su persone che sono in grado di risolvere problemi complessi, anche se magari non hanno ancora la forza di generare mandati. È questa la tipologia di avvocati che porta valore all’organizzazione», sottolineano. Chiarendo, poi, che il progetto dello studio è di qualificare al massimo la partnership, attraverso la crescita interna o per via laterale. Come è accaduto con l’ingresso di Paola Tradati per il labour e, precedentemente, con Stefano Grassani per l’antitrust e Alessandro Corno per gli investment funds.
Servizi: l’indipendenza in primis
Gli avvocati devono innovare. Devono essere altamente qualificati. E devono essere indipendenti. L’indipendenza, quindi, è il terzo elemento portante su cui si incardina la sostenibilità del modello scelto da Gatti Pavesi Bianchi.
Là dove «per indipendenza intendiamo la volontà di non alternarsi sui clienti come spesso avviene in studi con strutture più complesse», viene precisato da Carlo Pavesi. In ultima istanza, si tratta della capacità di intessere rapporti fiduciari tali da non fare percepire il consulente come fungibile. «Paradossalmente – riflette – quando si ha una struttura molto grande ma si compete in un mercato ristretto come quello italiano si è costretti ad adottare la stessa strategia di quando si ha una presenza capillare a livello mondiale: bisogna costruire muraglie cinesi all’interno dello studio per evitare conflitti d’interessi. Noi non vogliamo essere costretti a farlo». Aggiungendo così un motivo in più per mantenere la barra dritta sul purismo del modello boutique.
Tuttavia, per stessa ammissione dei tre partner, fino a oggi un limite nella via percorsa c’è stato. Ed è su quello che in futuro saranno concentrati gli sforzi: cercare una strada per l’internazionalizzazione. Al pari di molte altre insegne autoctone, anche Gatti Pavesi Bianchi percepisce la necessità di intercettare la domanda estera a monte. Ma il percorso di sviluppo sarà, anche su questo fronte, diverso da quello tracciato dagli altri.
Nel futuro dell’insegna, i tre name partner non intravedono l’apertura di nuove sedi, né l’ingresso in network o alleanze strategiche. Ma intendono sensibilizzare le reti che ognuno di loro ha sviluppato in occasione di percorsi di studio o esperienze maturate all’estero, mettendole a fattor comune e capitalizzandole. Un approccio prudente che, basandosi su rapporti fiduciari, ancora una volta riflette una cultura legale radicata nel dna italiano.
La prospettiva di Carlo Pavesi
Dio salvi la regina che sa fare la regina
Potrebbe sembrare un arroccamento nei circoscritti confini di un ruolo. In realtà, la posizione espressa da Carlo Pavesi è quella della tutela dell’importanza dell’individualità della professione, a condizione che non si snaturi nei contenuti e nella prassi. Pavesi difende con forza gli elementi che a suo parere dovrebbero contraddistinguere un avvocato nella sua essenza: personalizzazione del rapporto, riservatezza e capacità di creare valore aggiunto importante.
Le sue idee sono chiare quanto forti: «Non siamo un brand. Non dobbiamo fare pubblicità a tutti i costi rischiando di compromettere il patto di fiducia stretto con i nostri clienti. Né, tantomeno, dobbiamo relegarci al ruolo di fornitori di servizi. La parola commodity non dovrebbe essere associata a chi con il suo sapere riesce a gestisce e risolve complessità». Fare del riserbo una virtù cardinale per tutelare il cliente e differenziarsi dai competitor, adottare una comunicazione di basso profilo e puntare sul valore aggiunto sono scelte difese con forza da Pavesi, anche quando il mercato prende un’altra strada. Scelte che reputa indispensabili per una professione che meriti di essere salvaguardata.
Altrimenti, a suo avviso, si rischierebbe di prestare il fianco a chi la riduce ad attività fungibile e la trasforma in lotta al ribasso dei prezzi. Quello di Pavesi, quindi, sembra non essere un inno generico al Dio salvi la regina. Ma, piuttosto, un invito a essere degni interpreti del proprio ruolo.
L'intervista a Luigi Arturo Bianchi
A tu per tu col professore avvocato
Coniugare l’attività accademica con la libera professione è un elemento frequente nel mercato legale italiano. D’altronde, come noto, tutt’oggi sulle questioni più delicate i clienti non fanno mistero di dover portare in Cda pareri firmati da professori. Esperto di diritto societario e di intermediazione bancaria e finanziaria, nel 2010 Luigi Arturo Bianchi si è unito in qualità di partner all’allora d’Urso Gatti, senza rinunciare mai all’attività accademica presso l’Università Luigi Bocconi di Milano.
Qual è il valore aggiunto del professore avvocato in uno studio?
Il valore aggiunto del professore avvocato in un grande studio legale non è sempre uguale. Può risultare significativo se è capace di coniugare rigore teorico ed esperienza pratica, avendo, spesso, uno “stile” professionale meno smaccatamente partigiano rispetto a quello di molti avvocati d’assalto.
Cosa aggiunge l’esperienza accademica all’attività del consulente?
Il professore avvocato, quando è autorevole, ha un ruolo importante negli studi in quanto portatore di relazioni trasversali, con realtà diverse, dalle istituzioni alle Università, alle associazioni di categoria; fa parte di advisory board, comitati scientifici, collabora con i media e così via.
Quali, invece, i possibili limiti del professore avvocato?
Il suo contributo può essere assai modesto e addirittura controproducente se fa prevalere il gusto per la costruzione raffinata e concettosa rispetto alla sensibilità verso il problem solving. Il professore avvocato deve essere pienamente integrato nello studio e, soprattutto, deve disporre di una propria clientela, altrimenti rischia di ridurre il suo apporto, ancorché qualificato, a quello di un service per i team di lavoro, con una oggettiva marginalità nei processi interni di gestione dello studio. Portare il doppio cappello sembra richiedere un equilibrio non semplice da raggiungere. Mentre la categoria del professore avvocato è sempre più diffusa Pochi professori sono veramente autorevoli, ma quei pochi hanno un peso specifico maggiore della gran parte degli avvocati, ad esempio nel contenzioso, nei rapporti con le Autorità e nei conflitti endosocietari.
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