Settecentotredici pagine di motivazioni provenienti da 90 studi legali e fiscali autocandidati, 35 ore di incontri diretti con i 17 membri della giuria, 287 candidature da valutare nella fase finale per 32 categorie. In tutto, oltre quattro mesi di lavoro. Questi i numeri della VIII edizione dei TopLegal Awards. Al di là dei numeri, le premiazioni celano interessanti retroscena che forniscono nel loro insieme una prospettiva privilegiata sul mercato legale.
Innanzitutto per via del dialogo approfondito con la giuria. Per gli studi e i singoli professionisti, la valutazione delle candidature settore per settore vale una gara di bellezza. Ma la collaborazione della giuria non è semplicemente finalizzata ad individuare i vincitori. Nella ricostruzione dell’assistenza prestata – e si tratta di ricostruzione perché alcuni mandati, specie quelli che coinvolgono tre, quattro o più studi, hanno una genealogia complessa – si riescce a distinguere casi in cui i consulenti si sono dovuti limitare semplicemente a ‘vestire’ l’operazione da quelli in cui l’incidenza della consulenza legale è stata fondamentale per l’esito dell’operazione.
Chiaramente, la forma e i contenuti delle motivazioni hanno un peso fondamentale nel determinare il successo o l’insuccesso delle candidature. Ma c’è di più. Grazie ad un’attenta lettura delle motivazioni, si arriva a definire una fenomenologia degli studi, soprattutto nelle categorie che ne profilano le criticità o ne fanno emergere i punti ciechi. Omnis determinatio est negatio.
Prendiamo il caso in cui la scelta del candidato è plasmata da fattori spesso estranei al merito: i delicati equilibri politici all’interno della partnership, ad esempio, oppure i diktat provenienti dall’orientamento commerciale dei singoli dipartimenti. Tali fattori ricorrono in categorie individuali come il Professionista dell’anno. Per ragioni analoghe ma opposte, molti studi non sarebbero interessati a promuovere i propri giovani quale potenziale Avvocato emergente dell’anno.
Altre anomalie, invece, si rivelano nella categoria Donna dell’anno che premia non solo l’attività professionale ma anche l’impegno a favore di politiche di genere. Dalle motivazioni si deduce che solo un esiguo numero di professionisti, per dirla con un giurato, «fa ritornare l’ascensore» verso il basso. Si pensa più ad ostentare cariche del tutto irrilevanti ai fini del maggiore equilibrio di genere o che prescindono dalla realtà quotidiana dello studio, realtà in cui tutto rimane invariato come prima.
Un’ulteriore mancanza caratteristica degli studi riguarda l’inconsapevolezza della propria storia. Pertanto alcuni pretendenti al titolo Studio dell’anno dimenticano di fare riferimento al proprio percorso di sviluppo e alla propria progettualità – anche quando questi requisiti esisterebbero. L’arretratezza della cultura del lavoro, invece, spicca fra certi studi che ambiscono al premio ‘ Best place to work’. Aspetti di tale cultura che rappresenterebbero il minimo assoluto di standard lavorativi in qualsiasi azienda vengono ornati con gli abiti dell’assoluta avanguardia. La stessa visione distorta informa la categoria innovazione. Anche qui si fa molto rumore per niente, ostentando ciò che era nuovo qualche anno fa ma che ora è ritenuto superato o scontato.
Vi è inoltre la strana inclinazione a disconoscere non solo la propria storia, ma persino la propria attività. Tra tutte le categorie, quella rivolta alla migliore operazione a favore delle pmi incontra le resistenze più inspiegabili. Sembrerebbe che certuni, nonostante siano consulenti di fatto, abbiano una forte propensione a rinunciare alla paternità di tali operazioni, magari per timore di essere associati ad un settore che andrebbe ad inficiare la propria percezione come studio o professionista di grandi e prestigiosi mandati.
Nelle pieghe delle candidature emergono altre criticità di ordine diverso che svelano sia le difficoltà che hanno molte insegne legali nel realizzare una comunicazione istituzionale coerente, sia i rapporti piuttosto complicati tra avvocati e il personale di supporto all’interno degli studi.
In troppi casi si evince che un rapporto di collaborazione tra professionisti del diritto e quelli del marketing e della comunicazione non esiste affatto. In questo ambito è praticamente sconosciuta la gestione delle aspettative degli aspiranti vincitori da parte di chi avrebbe il compito di maturare e divulgare al suo interno conoscenze oggettive del mercato. Come lo è il lavoro di elaborazione e di valorizzazione – per non dire il filtraggio necessario – da parte degli esperti di comunicazione di fronte a candidature appesantite da tecnicismi palesemente redatte dagli stessi avvocati.
Una lettura attenta dei contenuti delle candidature rivela altre pecche. Troppo spesso, ci si limita all’annuncio del mandato senza ritenere utile alcun indizio sull’effetto concreto dell’assistenza né il risultato conseguito per il cliente. Si insiste invece su elenchi interminabili di operazioni o casi messi in fila senza cura del periodo di riferimento, a volte sottolineando ricorsi ininfluenti e vittorie senza soluzioni chiare. Poi vi sono le sottigliezze: chi si vende la parte per il tutto; chi, peccando per difetto, il tutto per la parte. Infine, che dire della motivazione in cui il mandato non ha nemmeno coinvolto il candidato… Da premio, senz’altro, ma per la gara del Dronte in Alice nel paese delle meraviglie dove, in una pista circolare, ognuno prende posizione dove vuole e parte quando vuole, andando nella direzione voluta. E alla fine tutti vincono.
TopLegal Awards: dietro le quinte