La gestione di uno studio legale sembra appassionare pochi avvocati d’affari italiani. E si capisce perché: i principi di management aziendali esulano dalla formazione di chi è abituato a studiare codici. Tutt’al più, appartengono agli affezionati della burocrazia soprattutto negli studi di matrice inglese. Tuttavia, tali principi non possono essere trascurati da qualunque studio che superi una certa dimensione e per il quale serva una direzione strategica oltre alla semplice amministrazione quotidiana. Sono finiti i tempi quando, come era ancora il caso a metà degli anni Novanta, pochissimi studi legali in Italia contavano più di 10/15 avvocati: oggi i primi 50 studi hanno numeri da media impresa. E, se non bastasse, non si possono semplicemente importare le tecniche di gestione ma serve un ulteriore lavoro di traduzione e di adattamento per renderle idonee a strutture associative dove possono convivere 10, 20 o addirittura 50 titolari.
A due decenni circa dall’arrivo delle insegne internazionali, le best practice gestionali hanno attecchito in modo disomogeneo tra gli studi italiani. Superati la riservatezza esasperata, l’autoreferenzialità e il ricorso al passaparola, i maggiori marchi hanno ora istituzionalizzato la comunicazione e si connotano con una propria corporate identity. Tuttavia, mentre i professionisti sono più sollecitati che mai dai media e gli studi comunicano di più, vi è un appiattamento degli attori e si fa fatica a trasmettere al mercato competenze, reputazione e valori distintivi. A una comunicazione imperfetta corrisponde un marketing imperfetto. Gli studi legali al vertice del mercato stanno migliorando l’orientamento al cliente, creando al loro interno nuove strutture organizzative e riporti, nonché prodotti legali integrati per settore merceologico, per venire incontro e perfino anticipare le esigenze del cliente. Nondimeno, a causa della forte impronta personalistica della cultura d’affari italiana, l’istituzionalizzazione dei rapporti rimane un lavoro in corso d’opera.
Per gli altri aspetti le buone prassi sono ancora in via di definizione dovendosi adattare alle schizofrenie che caratterizzano lo studio professionale. Nella distinzione marcata fra dipendente e chi produce reddito si misura tutta la distanza che separa lo studio legale dall’impresa. E non solo. Mentre praticanti e collaboratori vengono assunti e trovano un percorso di formazione e di carriera e sistemi remunerativi che fanno riferimento a parametri riconosciuti dal mercato, il reclutamento di professionisti affermati avviene in modo tutto opportunistico e con asimmetrie oggettive che spesso inducono a errori di valutazione da parte di chi recluta. Spicca inoltre il dilemma tra la necessità di garantire una crescita interna, per creare senso di appartenenza e coesione, e quella di sottrarre soci ai concorrenti per riposizionarsi sul mercato ma che risulta destabilizzante per l’integrazione e la cultura interna dello studio.
Su questi temi si sono interrogati Luca Arnaboldi (Carnelutti), Massimiliano Mostardini (Bird & Bird), Stefano Simontacchi (BonelliErede), Federico Sutti (Dentons) e Filippo Troisi (Legance) in occasione della quinta edizione del Summit TopLegal a Milano a fine ottobre. Il consenso tra gli autorevoli esponenti è stato che lo studio legale in Italia si è ulteriormente managerializzato negli ultimi anni – basti pensare all’apparire di nuove figure come il project manager e persino il Cfo – ma che, al contempo, la diffusione di logiche aziendalistiche ha fatto altresì emergere dubbi sui principi primi del ruolo del manager legale.
Vi è, innanzitutto, una mancanza di accordo sul valore del lavoro dedicato alla gestione rispetto all’attività professionale che rende indispensabile un salto psicologico e, più in generale, un’evoluzione culturale. A chi affidare la gestione dello studio legale? Qui predomina fra i leader delle maggiori insegne uno spiccato realismo: l’avvocato con naturali doti di gestione e di leadership è raro e più volte frutto del caso. I rainmaker originano mandati e fanno crescere i conti dello studio ma si dimostrano spesso maldestri a gestire i propri colleghi. Nel caso contrario, sapere gestire troppo bene la macchina è forse peggio se sottrae reddito allo studio. Tuttavia, se nominare alla gestione dello studio i soci di maggior successo rischia di essere controproducente, non farlo rischia di emarginare personalità influenti che potrebbero diventare elementi di disturbo.
Chiaramente, per saper costruire una squadra coesa e consolidare il vincolo associativo – come d’altronde ottimizzare la comunicazione, il marketing, nonché la struttura organizzativa e i processi interni – servono capacità direttive specifiche. Un mercato del tutto mutato ha reso ormai imprescindibile il “professionista manager” capace di tenere in equilibrio esigenze contrastanti senza perdere nulla del suo valore sia in termini di professionista legale che di dirigente responsabile per la conduzione dello studio.
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