di Marco Michael Di Palma
Lo scorso mese, il managing partner di un primario studio legale e attento osservatore del mercato mi faceva notare il consolidamento in aumento dei principali studi in Italia. Negli ultimi cinque anni fiscali, il giro d’affari dei primi 25 studi è aumentato in media di oltre un terzo (34% per l’esattezza). Il divario con la crescita dell’economia è notevole: il Pil nazionale nello stesso periodo si è contratto del 13% (dati Banca mondiale e Ocse). Nel quinquennio 2015-2020, quindi, la crescita dei primi studi legali italiani ha superato di 47 punti l’economia del Paese.
Mentre il giro d’affari dei principali studi si sta concentrando, il comparto rimane polverizzato. Nonostante la congiuntura, il numero di insegne continua ad aumentare. È vero che, dall’estate di quest’anno, l’economia italiana ha registrato il più grande rialzo di qualsiasi altro Paese del G7, ma le attuali dimensioni dell’economia restano inferiori di circa un quinto rispetto al 2008. Con la concentrazione del fatturato, la distanza per gli inseguitori si allarga e diventa più difficile agganciare la profittabilità e l’attrattività per i migliori talenti degli studi di testa.
Gli effetti della pandemia sono stati devastanti e perdureranno ancora. Eppure, la ripresa è palpabile. La campagna vaccinale, le riforme e gli investimenti europei, il credito internazionale guadagnato dal Governo Draghi e le esportazioni in espansione hanno restituito fiducia. Attraversiamo una fase crepuscolare, per riprendere la metafora di Victor Hugo, momento allo stesso tempo declinante e iniziale. Non vi è una chiave di lettura immediata dell’attuale contesto.
Per avere un termine di paragone con il presente, bisogna tornare alle due stagioni che di più hanno segnato il comparto legale in Italia durante gli ultimi tre decenni.
La prima stagione di scombussolamento coincise con l’invasione della concorrenza straniera nel decennio 1993-2003. Di fronte alla supremazia di un modello globalizzato capace di riordinare gli equilibri del mercato, gli studi italiani reagirono in tre modi. Alcuni colsero la proposta di integrarsi per avviare le nuove sedi italiche dei colossi anglo-americani. Altri scelsero la strada delle alleanze per farsi le spalle più larghe, anche in vista di un’eventuale fusione. Altri ancora accantonarono inveterate resistenze e rivalità per dare vita a nuove aggregazioni domestiche per conservare l’indipendenza.
La seconda stagione critica iniziò con il fallimento Lehman nel 2008 e la normalizzazione della professione. Ne derivò il rovesciamento profondo e permanente dei rapporti di potere tra avvocato e cliente, con i clienti che dettavano le regole. Gli studi internazionali soffrirono per primi i mandati e le parcelle ridotte, ma gli italiani pagheranno l’ulteriore prezzo del proprio ritardo culturale dovuto al compito sempre respinto di riformarsi nella governance. Aumentarono le de-equitizzazioni e gli abbandoni di soci, molti dei quali pensarono di superare la congiuntura facendosi piccoli e avviando boutique specializzate per singola area di diritto.
Le tendenze di mercato oggi differiscono dal passato in due modi soprattutto. Negli anni Novanta, le privatizzazioni e cessioni pubbliche spinsero i grandi studi a riposizionarsi verso l’alto per assistere le nuove S.p.A sbarcate in Borsa. Questa volta, l’attesa pioggia di fondi destinata a risanare le piccole e medie imprese sta orientando un’espansione finalizzata a riposizionarsi sul mid market. Inoltre, mentre all’indomani della crisi finanziaria proliferavano gli spin off, in questa fase i soci e le squadre in uscita hanno avviato pochi nuovi progetti greenfield.
Considerando le strategie partorite durante il periodo pandemico, una sola scelta ha interessato il settore trasversalmente come accadeva durante la crisi finanziaria. Oggi come allora, tutti gli attori hanno perseguito la stretta alle promozioni e ai soci improduttivi per difendere i margini. A differenza delle fusioni e integrazioni che hanno principalmente interessato le insegne piccole e medio piccole. Questo segmento del mercato è tornato alle scelte agli anni Novanta, anche per la moltiplicazione di accordi di collaborazione. Bisogna ricordare, però, che le alleanze di venti anni fa non diedero i risultati sperati. Motivo per cui, in tutta probabilità, poche di queste collaborazioni muteranno in integrazioni effettive.
Il segmento alto e medio alto ha finora preso le distanze da operazioni di aggregazione. Nonostante il consolidamento finanziario, aspettiamo ancora la prima integrazione di peso del 2021. Non esiste più l’ostacolo oggettivo che impedì ulteriori integrazioni durante l’invasione straniera, ovvero l’impossibilità di allineare i compensi dei soci italiani con il lockstep inglese. Semmai, le trattative oggi rischiano di fallire per i personalismi (il nome della nuova insegna) e la gestione dei clienti in conflitto. Piuttosto, la partita dei grandi e medio grandi oggi verte sulla crescita per espansione laterale, ma il successo di questa strategia richiede che le compagini siano stabili e compatte. L’anno in corso ha già battuto il record assoluto di abbandoni di soci equity dal 2011. Se continuerà così, gli studi non faranno che mordersi la coda.
Marco Michael Di Palma