Diritto all'oblio

Hogan Lovells vince con Google al tribunale di Roma

Lo studio ha vinto due gradi di giudizio, ottenendo il respingimento del ricorso avversario su Google My Business

27-02-2019

Hogan Lovells vince con Google al tribunale di Roma





 
Il team in house di Google guidato dalla director Marilù Capparelli e composto da Marta Staccioli e Marta Simoni, assieme a Hogan Lovells, con Alberto Bellan (in foto), Marco Berliri, Massimiliano Masnada e Michele Traversa, ha ottenuto due decisioni (primo grado e reclamo) avanti al tribunale di Roma riguardo al servizio Google My Business, che permette di visualizzare tra i risultati di ricerca una scheda con le informazioni su un'attività commerciale e le recensioni degli utenti.
 
La controversia era stata instaurata dal titolare di una clinica di chirurgia estetica che sosteneva di avere il diritto che la sua attività non fosse visualizzata e recensita dagli utenti nella scheda My Business, contestualmente lamentando la presenza di recensioni asseritamente diffamatorie di cui Google avrebbe dovuto essere ritenuta responsabile  in quanto hosting provider "attivo". 
 
Con le due decisioni emesse a dicembre 2018 e a febbraio 2019, il tribunale di Roma ha respinto le domande, stabilendo che un'attività commerciale o professionale che offre i suoi servizi sul mercato non possa pretendere di sottrarsi al giudizio del pubblico. Al riguardo, il tribunale ha sottolineato come la creazione di schede che includono informazioni generali su un'attività commerciale e permettono la memorizzazione di recensioni è tutelata dalla libertà di impresa di Google ed è funzionale alla piena esplicazione della libertà di espressione degli utenti. La pretesa di non comparire su una piattaforma di recensioni, ha stabilito il tribunale, si pone in aperto contrasto con quei principi costituzionali e non ha fondamento giuridico. 
 
Inoltre il tribunale ha stabilito che Google, oltre a non essere responsabile per le recensioni create dagli utenti, non ha nemmeno l’obbligo di rimuoverle su mera diffida di parte: infatti, il bilanciamento tra le libertà di espressione e la reputazione di un soggetto deve essere svolto dall'autorità giudiziaria, non dal provider, che può e deve rimanere "inerte" sino a che una decisione di un tribunale, svolto il bilanciamento in questione, ordini la rimozione o la disabilitazione di un determinato contenuto. 
 
Infine, il tribunale ha escluso che un provider come Google possa essere destinatario di "inibitorie in bianco" o "pro futuro", violando tali pretese il divieto di imporre al provider obblighi di filtraggio e ricerca attiva disposto dall'articolo 17 del d.lgs. 70/03.


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