Nella scelta dell’avvocato da parte del cliente contano la fiducia e la competenza, non la tariffa praticata, e difficilmente le aspettative del cliente non sono soddisfatte in termini di assistenza, comprensione dei bisogni, tutela della riservatezza. Quello che il cliente vorrebbe fosse rafforzato nel rapporto con il proprio avvocato è piuttosto l’informazione e la struttura di studio, che dovrebbe essere più organizzata.
Sono questi i risultati della ricerca del Censis sul Ruolo sociale dell’avvocatura, commissionata dal Consiglio nazionale forense e presentata in occasione del XXIX Congresso forense, che si sta celebrando in questi giorni a Bologna.
La ricerca Censis, condotta su un campione di 1500 persone che sono stati o sono clienti di avvocati negli ultimi dieci anni.
I risultati della ricerca Censis evidenziano come «il mercato è già parte integrante della professione di avvocato (…) ma il cliente medio non ha interesse specifico a quanto e come si affaccia nella professione la sua logica. Ciò che gli interessa di più è che il professionista sia competente e possa risolvere il suo problema, cosa che non coincide necessariamente con un successo in giudizio». I clienti si rivolgono all’avvocato per lo più per una consulenza (50,5%), per azionare una pretesa (62,3%) e nel 53% dei casi come parte lesa. Nella scelta conta l’immagine pubblica di cui l’avvocato gode, tanto che il 68% dei clienti ha scelto il proprio legale su suggerimento di amici, perfezionato con il livello di notorietà a livello locale. All’avvocato ci si rivolge per risolvere questioni di infortunistica (27%), di proprietà o locazioni (25%) per questioni di famiglia e minori (15%).
Quanto si sonda la percezione dell’avvocatura come una casta a cui si accede per ereditarietà, si sfata il primo luogo comune: essere figli di avvocato non è considerato dal cliente un fattore di sviluppo della professione (30%), come invece lo è uno studio ben organizzato (39%).
Molti clienti, poi, criticano il sistema di accesso alla professione ritenendo utile il numero chiuso per le facoltà di Giurisprudenza (18%).
Il secondo luogo comune che traballa riguarda le tariffe forensi, al centro del decreto Bersani che ha abolito i minimi vincolanti. I risultati della ricerca sono chiari: «il costo delle prestazioni dell’avvocato non è di per sé un elemento negativo né le parcelle incidono sul giudizio del cliente».
Solo il 6% degli intervistati ha dichiarato di aver cambiato avvocato perché le tariffe praticate erano troppo alte. Né, d’altra parte, i clienti ritengono che se un avvocato ha tariffe troppe basse non sia bravo (87,3%).
In linea generale, comunque, il turn over nella scelta del professionista è basso: solo il 12,9% ha cambiato avvocato negli ultimi dieci anni.
D’altra parte, la ricerca mostra come il grado di soddisfazione è alto: ben il 66,5% dei clienti ritiene che i servizi degli avvocati siano in linea con la proprie aspettative.
La ricerca ha anche indagato il grado di accordo dei clienti su alcuni giudizi che circolano sulla categoria degli avvocati: ebbene, il 66% non è d’accordo sull’assunto che senza di loro i processi sarebbero più veloci e il 58% sulla asserzione che è colpa loro se la giustizia costa tanto. Semmai le critiche sono relative al fatto che sono troppi e troppo coinvolti in politica (57%). Traspare al contrario una percezione positiva della categoria visto che per il 70% degli intervistati senza gli avvocati mancherebbero le garanzie nei processi e per il 64% aiutano a prendere le scelte personali ed economiche giuste.
In prospettiva, la ricerca individua alcune linee di impegno per il futuro, richiamando l’attenzione degli avvocati, e dei loro rappresentanti istituzionali, alla necessità di una maggiore organizzazione di studio e al rafforzamento di una comunicazione che non ha nulla a che fare con la pubblicità (il 69% non vuole proprio sentire parlare di una pubblicità modello commerciale sul lavoro dell’avvocato). Infine, il ruolo dell’avvocato rispetto allo sviluppo del paese è ancora scarsamente percepito.