«Clifford Chance, il più grande studio legale integrato del mondo, ha raggiunto un accordo amichevole di separarsi alle condizioni concordate con cinque partner nella sua practice italiana, Grimaldi Clifford Chance. Le partenze rispecchiano una divergenza di approccio nel modo di agire e nella gestione di uno studio legale».
Con questa nota, e nei toni del più classico understatement inglese, si consuma la rottura più burrascosa di sempre del mercato legale italiano. Ma non è soltanto la magnitudine dello scontro – che si potrebbe definire senza esagerare antropologico – che farà della fusione fallita tra Grimaldi e Clifford Chance un punto di riferimento. Essa rappresenta il prototipo della difficile convivenza tra studi inglesi ed italiani durante il primo decennio del nuovo millennio. Tanto che il contrasto fra Grimaldi e Clifford Chance finirà per diventare un caso di studio, e condizionerà le scelte strategiche degli studi internazionali in Italia fino ad oggi, poiché incarna in modo esemplificativo la sintesi impossibile, la collisione di due mondi e di due logiche inconciliabili fra di loro. Le origini del conflitto risalgono a un accordo nato sbilanciato a favore degli italiani che viene votato all’unanimità nell’agosto del 2000 dai soci dello studio Grimaldi. Gli inglesi in partenza concedono tanto – troppo –, ma ritengono necessario dover cogliere un’importante occasione. Per capire le pressioni che dettano l’opportunismo, bisogna tornare all’Italia degli anni Novanta.
Il partenariato Grimaldi & Clifford Chance risale al 1993, quando Clifford Chance si distingue come primo studio inglese a sbarcare in Italia. Nel crogiolo dell’ondata di privatizzazioni e l’espansione inarrestabile della finanza, giunge al suo massimo potere la figura professionale del rainmaker, il consigliore ambito dai clienti che contano nel capitalismo italiano. Agli inizi del nuovo millennio, e spronati dal boom della new economy nonché dall’intensa attività del mercato azionario, gli studi inglesi hanno come principale obiettivo quello di consolidare gruppi di avvocati italiani cappeggiati da tali «uomini della pioggia». Ma l’espansione in Italia viene inoltre sostenuta da una convinzione di base che ora sembra un errore di attribuzione. Forti dei propri successi in altre economie continentali (Francia, Germania, Olanda, Spagna), gli studi inglesi puntano sull’eventuale trasformazione del mercato legale italiano con il lancio e consolidamento del loro modello gestionale e l’auspicata migrazione di prestigiosi clienti italiani istituzionali verso gli studi stranieri.
I progetti di espansione da parte degli studi inglesi partono, come è già avvenuto altrove, con accordi di alleanze o associazioni esclusive considerate propedeutiche ad un’eventuale integrazione. Lo stesso processo è previsto per l’Italia, ma Clifford Chance deve da subito fare i conti con il problema nodale del mercato italiano: lo spread della remunerazione dei soci equity, ossia il differenziale remunerativo tra i soci. E la questione della ripartizione degli utili fa allungare le trattative sull’integrazione.
La coincidenza vuole che in quello stesso momento un altro studio del Magic circle affronti la stessa sfida. Freshfields Bruckhaus Deringer, che fatica a trovare un partner italiano, si trova in trattative di fusione con Chiomenti ma i negoziati finiscono su un binario morto. Al centro delle difficoltà, l’impossibilità di allineare lo spread dell’equity tra i rispettivi studi. Per gli inglesi il margine è di 1 a 2,5 contro l’ 1 a 8 di Chiomenti. Mentre Freshfields si ritira dalle trattative, Clifford Chance decide di siglare un accordo con Grimaldi ma si tratta di colmare divergenze altrettanto abissali. Vittorio Grimaldi origina affari per 20 milioni di sterline e la sua retribuzione si aggira tra i 2,5 e i 3,5 milioni annui. Il massimo dell’equity di Clifford Chance arriva ai soli 804 mila sterline. Per dare una risoluzione ad una situazione irrisolvibile, ai cinque soci di Grimaldi vengono assegnati punteggi addizionali (super points) al lockstep inglese per un periodo di tre anni.
Si spera con lo stravolgere dei principi interni dello studio inglese di guadagnare tempo. Tuttavia, una volta reso pubblico, l’accordo crea malcontento nella partnership globale perché intacca frontalmente la cultura della tanta vantata singola associazione (one partnership).
Oltre i confini italiani si mette in discussione il trattamento speciale riservato ai soci di Grimaldi. E non sfugge a nessuno la situazione paradossale per cui i soci negli uffici periferici ora guadagnano multipli della retribuzione del loro capo nel quartier generale. Ciononostante, la fusione ufficiale viene celebrata all’inizio del 2001. Dopo aver fatto concessioni straordinarie agli italiani, Clifford Chance è costretto a fare dietrofront per allineare l’associazione italiana alla sua struttura globale.
La luna di miele dura poco. Anzi pochissimo. A distanza di poco più di un anno, la stampa parla del ritorno di Grimaldi all’indipendenza. Nell’aprile 2002, le notizie si concretizzano e si parla della prossima uscita dei cinque soci grimaldiani insieme ad una ventina di avvocati. L’oggetto particolare del contendere per gli scissionisti riguarda la nomina di un nuovo managing partner (si ventila il nome di Luigi Chessa) per dirigere l’opera di riadeguamento alla struttura globale. Londra preme soprattutto sull’allargamento della base equity per adeguare la practice italiana al network internazionale; pressione respinta dai grimaldiani consapevoli di poter guadagnare molto di più al di fuori del lockstep inglese.
Il mese successivo, siamo al 27 maggio 2002, si giunge all’accordo per l’uscita di cinque soci e 26 avvocati, previsto per la fine di agosto. A Roma, la squadra di Clifford Chance viene addirittura sfrattata dai propri uffici (lo stabile è intestato a Grimaldi). Tra le macerie, gli inglesi riescono a nominare al ruolo di managing partner i soci Nick Wrigley e Luigi Chessa. Passa ancora un anno e continua la ricerca dell’equilibrio post- grimaldiano. Occorre ancora allineare tutti i soci italiani al lockstep internazionale (Wrigley nel 2001 guadagnava oltre 1 milione di sterline in più rispetto al massimo dello scalone). Con l’uscita di Chessa (passato dopo alcuni mesi dalla sua nomina a Standard & Poor’s) si crea un comitato esecutivo per condividere la gestione dello studio con Wrigley.
Sono trascorsi tre anni di subbuglio. La politica della rete internazionale è finalmente ripristinata in Italia ma i rainmaker si allontaneranno definitivamente. Conseguenza del profondo dilemma che affrontano tutte le ambizioni delle law firm internazionali, divisi tra esigenze locali anomale e la propria gestione consolidata. Il lockstep britannico nella sua essenza premia l’esperienza e gli anni di servizio, ovvero l’impegno e la lealtà verso lo studio concepito come organizzazione ed istituzione. Minimizza invece le ineguaglianze economiche fra soci anche al costo di livellare le capacità di generare fatturato. Tale modello ha preteso inserirsi sull’articolazione strutturale dell’ethos italiano – dei «lupi solitari», per riprendere una battuta di Vittorio Grimaldi – che riconosce piuttosto l’autonomia e i rapporti di fiducia distillati nel potere del singolo, il che fonda e legittima l’enorme disparità dei redditi tra soci della stessa insegna.
Gli osservatori inglesi di lungo corso fanno il parallelo tra questa cultura di studio e le proprie insegne degli anni Settanta. Ma, mentre a Londra è stato superato questo modello, l’Italia si distingue per il suo sincretismo che rende possibile sul mercato la convivenza delle politiche gestionali e delle culture interne più disparate. Da noi, continua a reggere senza ostacoli un pluralismo fatto di tradizione e di modernità. Guai, però, a voler amalgamarli in un unico studio.
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