Succedeva: marzo 2011

I QUATTRO ANNI ITALIANI DI BRYAN CAVE

Gli americani sbarcarono a Milano nell’agosto 2007 quando imperavano fusioni e ultrafinanza miliardarie. Ma una strategia insostenibile costrinse lo studio di St. Louis ad abbandonare l’avventura.

01-03-2014

I QUATTRO ANNI ITALIANI DI BRYAN CAVE

Bryan Cave segnò la seconda ritirata di uno studio legale americano dall’Ita­lia. La rinuncia toc­cò per prima a White & Case quando, nell’ottobre 2008, decise di chiudere i battenti. E proprio nella sede di White & Case in via dell’Annunciata a Milano, a fine estate nel 2007, piantava le tende Bryan Cave.

Era il maggio del 2007 quan­do l’assemblea di 314 soci votò lo sbarco dello studio in Italia con 14 avvocati. A Paolo BarozziFulvio Pastore Alinante, soci di Delfino e Associati Willkie Farr & Gallagher, il compito da co-managing part­ner delle nuova sede italiana del colosso americano con oltre 990 avvocati in 13 sedi nel mondo. Milano fu la prima manovra di una campagna europea che vide l’apertura anche ad Amburgo e, successivamente, a Parigi (nel 2008) e a Francoforte (fine 2011).

Era la stagione delle grandi fusioni bancarie e delle cartola­rizzazioni altamente profittevoli, gli anni d’oro prima della norma­lizzazione del mercato legale. Ma la strategia era ambiziosa. Bryan Cave attirava clienti del calibro di Boeing e Monsanto, ma il so­cio americano Frederick Bar­telsmeyer, durante un colloquio nella sede di TopLegal, affermò che lo studio voleva affermarsi in Italia al di là dei grandi clienti e delle grandi operazioni come part­ner delle aziende di taglia media.

Nel 2008, di fatto il suo primo anno di attività, l’ufficio milanese con 16 professionisti tra cui cinque soci, realizzò ricavi per oltre tre milioni di euro. Tra le operazio­ni più importanti, l’acquisizione da parte della americana Terex della società emiliana Fantuzzi (produttrice di macchinari per la movimentazione portuale). Ma il debutto dello studio coincise con l’arrivo della crisi e le operazioni straordinarie (come, per esempio, l’apertura del capitale di Pompea, specializzata nella produzione di intimo) faticarono a chiudersi. Pre­valente, piuttosto, fu l’assistenza continuativa a un gruppo di clienti consolidati, l’attività giudiziale e la consulenza fiscale. Nonostante la congiuntura sempre più difficile, Bryan Cave affermò di volere raf­forzarsi con tre nuovi soci.

L’insostenibilità dell’impresa emerse nel 2010 quando la sede milanese propose alla casa ma­dre di modificare i propri rap­porti con lo studio. Gli accordi stipulati in base a schemi validi per la practice mondiale di Bryan Cave si rivelarono limitanti per la squadra italiana in cerca di mag­giore flessibilità. Barozzi e Pasto­re costruirono quindi una loro associazione di diritto italiano mantenendo una collaborazione diretta con lo studio americano. Ma l’anno successivo si consumò la ritirata di fatto di Bryan Cave dal mercato italiano con il pas­saggio di quasi tutta la compagi­ne milanese a Grande Stevens che mise un primo piede nel capoluo­go lombardo acquisendo clienti come Azimut e Volkswagen.

Fu la seconda volta nel giro di due anni che uno studio ameri­cano, di fronte alla difficoltà di far aderire un modello di business internazionale alla realtà locale italiana, decise di rivedere la pro­pria strategia in Italia. Bryan Cave riordinò le sue priorità, puntando sulla Germania con l’avvio della sede a Francoforte. Fu la mossa conclusiva della sua espansione europea. Nel frattempo il rappor­to di collaborazione privilegiato con la squadra di Grande Stevens subì un’ultima modifica. Dopo cinque mesi dall’entrata come soci in Grande Stevens, Pastore e Luigi Zumbo uscirono per affi­liarsi al network internazionale di Bryan Cave attraverso la propria boutique milanese, Sils.

Articolo pubblicato in TopLegal marzo 2014.

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Grande Stevens, White & Case, Bryan Cave, sils, Delfino Willkie Farr & Gallagher Terex, Azimut Holding, Volkswagen, Fantuzzi, Boeing, Pompea, Monsanto


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