Interdizione, sequestro e confisca tra tecniche d’accusa e strategie difensive
Negli ultimi dieci anni il diritto penale economico e dei reati contro la Pubblica Amministrazione si è lentamente trasformato da strumento di privazione della libertà personale per gli autori dell’illecito a strumento finalizzato ad incidere in principalità sul patrimonio, sia delle persone fisiche, sia delle società.
La confisca “di valore”, istituto in continua evoluzione e crescita, consente di perseguire il nuovo target del diritto penale rappresentato dal patrimonio: non richiedendo l’esatta individuazione del bene che sia stato prezzo, profitto o prodotto del reato e superando il vincolo di pertinenzialità, colpisce direttamente il patrimonio del responsabile del reato in via definitiva attraverso una misura ablatoria che ha effetti dirompenti già nella fase delle indagini preliminari grazie all’anticipazione rappresentata dal sequestro preventivo finalizzato, appunto, alla confisca per equivalente.
La pressoché totale pervasività della confisca per equivalente nel sistema del diritto penale economico e, in particolare, della responsabilità da reato degli enti, induce sempre più le società ad attivarsi per cercare di prevenire il verificarsi di fatti di reato e richiede, altresì, di ricalibrare e riparametrare il rapporto nonché l’interlocuzione con la Procura della Repubblica.
Nell’ottica della prevenzione delle conseguenze patrimoniali è essenziale, in particolare, l’adozione di un idoneo modello di organizzazione e gestione ex d.lgs. 231/2001, strumento che non fornisce la certezza di poter evitare la commissione dei reati presupposto, ma che può schermare il rischio di verificazione e, soprattutto, può esonerare l’ente dalla sua tipica responsabilità per agevolazione colposa dell’illecito commesso dalla persona fisica. L’idoneità del modello non può essere valutata in relazione alla intrinseca capacità di impedire tout court il reato, ma deve essere apprezzata in virtù della sua adeguatezza a rendere effettiva ed efficace l’organizzazione stessa dell’impresa, senza che si debba considerare la realizzazione del reato come la smentita ex post della idoneità del modello stesso.
Valutazione dell’idoneità che, come è noto, sul piano processuale è affetta da uno squilibrio dell’onere probatorio: se il reato viene commesso da soggetto in posizione apicale, infatti, ex art. 6 d.lgs. 231/2001, è probabile che il modello sia ritenuto ipso facto inidoneo e che sia l’ente a dover dimostrare che non vi sia stata colpa di organizzazione e che il reato sia il frutto di un aggiramento fraudolento delle cautele organizzative; se il reato, invece, è commesso da un soggetto in posizione subordinata, ex art. 7 d.lgs. 231/2001, sarà la Pubblica Accusa a dover dimostrare l’inefficienza e l’inidoneità del modello.
Occorre dare una prospettiva nuova e diversa al d.lgs. 231/01: affinché l’impresa prenda atto che il modello organizzativo è esso stesso parte integrante della organizzazione aziendale, e quindi imprescindibile per la produttività dell’ente, è necessario che l’ente identifichi il reato come un costo. In altri termini, è essenziale per l’impresa prendere coscienza che il verificarsi di un reato ed il relativo conseguente costo si può riverberare sia sul patrimonio delle persone fisiche, sia sul patrimonio e sull’attività stessa dell’ente. Il reato, nella visione dell’imprenditore, deve essere qualificato come un avvenimento che, se si verifica, incide in maniera negativa sull’efficacia economica della produttività e non come un “facilitatore” di determinati traguardi o un risparmio sui costi.
Ecco, quindi, un primo approccio a cui l’ente non può oggi rinunciare per implementare l’efficienza del sistema e la stessa produttività: solo le aziende dotate di un modello che preveda l’applicazione di sanzioni per i dipendenti e gli apicali che non rispettano le procedure ivi indicate e che sia in grado di organizzare e controllare l’attività aziendale avrà, in caso di commissione di un reato presupposto e dell’avvio delle conseguenti indagini penali, precostituito i presupposti per poter abbattere il rischio stesso di iscrizione nell’apposito registro da responsabilità ex d.lgs. 231/2001 dell’ente medesimo.
Un secondo aspetto fondamentale per poter meglio tutelare l’ente e le persone fisiche in fase di indagini preliminari attiene all’esigenza di una sempre più pronta e dinamica interlocuzione e collaborazione con gli inquirenti, essendo per l’ente fondamentale precisare sin da subito, ove possibile, gli elementi a discolpa, cioè quegli elementi che possano indurre la Procura della Repubblica a ritenere che la società abbia fatto tutto ciò che era possibile fare per prevenire la commissione di quello specifico reato.
L’efficacia di questo approccio difensivo è avvalorata da talune considerazioni.
Nel nostro ordinamento l’iscrizione della società nel “registro degli indagati” ex d.lgs. 231/2001 è rimessa alla mera discrezione del Pubblico Ministero assegnatario del fascicolo relativo al reato presupposto e la posizione dell’ente può essere archiviata direttamente dalla Procura della Repubblica, senza che sia necessario un decreto di archiviazione del Giudice per le Indagini Preliminari.
Un dialogo e un confronto nella fase genetica dell’avvio delle indagini può in qualche modo mitigare il rischio di iniziative cautelari verso l’impresa, specialmente nei casi in cui la difesa possa proporre da subito la bontà e la serietà del sistema preventivo 231.
Vi sono, poi, le ipotesi limite in cui non è possibile per l’azienda dimostrare immediatamente di avere un modello efficace ed idoneo ad escludere una colpa di organizzazione. In questa eventualità è ancora più utile e necessario valutare un ulteriore approccio difensivo esperibile fin dall’avvio delle indagini preliminari: proprio la discrezionalità delle Procure della Repubblica nell’esercizio dell’azione penale amministrativa nei confronti dell’ente potrebbe, in talune ipotesi, lasciare spazio per intraprendere fin da subito le condotte (riparatorie) previste dall’articolo 17 d.lgs. 231/2001. Si tratta del risarcimento integrale del danno o, comunque, della eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato e, ove ciò non sia possibile, l’adoperarsi efficacemente in tal senso. La seconda condotta è quella di eliminare le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione dei modelli organizzativi idonei a prevenire i reati della specie di quello che si è verificato: i cc.dd. modelli ex post. Terza azione: l’ente può mettere a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca, così da evidenziare che non vuole trarre alcun vantaggio dalla commissione del reato, non ne vuole conseguire alcun profitto.
Le condotte riparatorie ex art. 17 d.lgs. 231/2001 servono non solo per scongiurare l’applicazione delle sanzioni interdittive e, quindi, per ridurre ed attenuare l’eventuale risposta sanzionatoria dell’ordinamento penale, ma anche per consentire all’ente di manifestare la propria resipiscenza prima ancora che si concludano le indagini e così scongiurare, addirittura, l’esercizio dell’azione penale amministrativa qualora il Pubblico Ministero ritenesse tali condotte idonee e correttamente tenute. Il che comporta non secondari vantaggi, posto che, una volta contestata l’imputazione all’ente, vi può essere solo una riduzione della risposta sanzionatoria, ma non si può escludere l’accertamento di responsabilità e la relativa condanna dell’ente, con la conseguente iscrizione nell’anagrafe dei soggetti giuridici che abbiano avuto precedenti condanne per gli illeciti penali amministrativi e, soprattutto, alla fine della vicenda processuale, la confisca, anche per equivalente, del profitto, in quanto nel sistema del d.lgs. 231/2001 la confisca è a tutti gli effetti una sanzione patrimoniale che segue alla condanna (art. 9 d.lgs. 231/2001).
Nell’ambito della responsabilità ex d.lgs. 231/2001 è particolarmente importante, quindi, per l’ente, non effettuare una resistenza passiva, ma farsi parte diligente e interloquire con la Procura della Repubblica fin da quando si viene a conoscenza della pendenza del procedimento, così potendo già in questa fase scongiurare sequestri e sanzioni interdittive in via cautelare o, nel caso di sequestri preventivi già in atto, limitare il valore dei beni sequestrati, tentando di ottenere il dissequestro o la restituzione, almeno parziale: ex art. 321, co. 2, c.p.p., infatti, nella fase delle indagini preliminari tali scelte sono assunte direttamente in autonomia dal Pubblico Ministero, mentre nelle fasi successive sarà sempre e comunque necessario il vaglio del Giudice e, lo si ribadisce, la confisca per equivalente, essendo una sanzione ex art. 9 d.lgs. 231/2001, viene applicata dal Giudice in sentenza su tutto il patrimonio sequestrato, senza alcuna chance di negoziazione.
Altro aspetto che suggerisce di intraprendere un approccio difensivo immediato e consapevole dell’ente fin dall’inizio delle indagini penali è legato al quantum confiscabile e all’interpretazione giurisprudenziale della nozione di profitto da reato. Se, infatti, ad essere confiscato è il profitto lordo, la società viene punita fondamentalmente due volte: alla confisca del profitto che ha ricavato dal reato, ad esempio il valore complessivo dell’appalto che ha ottenuto grazie al pagamento di tangenti, si aggiungono i costi relativi agli investimenti che l’ente ha affrontato, ad esempio i costi che ho sostenuto per costruire l’opera oggetto del contratto di appalto ottenuto con la corruzione. E questo significa che un intervento repressivo attuato in fase processuale potrebbe spingersi più facilmente verso una confisca allargata al profitto lordo, mentre in sede di accordo preliminare con la Procura della Repubblica ci si potrebbe anche trovare più vicini ad un concetto di profitto netto, così da ridurre il quantum, sottraendo al profitto del reato i relativi costi che l’ente abbia effettivamente sostenuto.
In conclusione il sistema sanzionatorio e repressivo del diritto penale economico prevede oggi conseguenze draconiane per l’ente condannato, che rischia l’interdizione, sanzioni pecuniarie, confisca, pubblicazione della sentenza; tutti eventi che possono essere scongiurati se, vista la libertà dell’esercizio dell’azione penale amministrativa e la (auspicabile) disponibilità che le Procure della Repubblica potrebbero dimostrare con l’ente che abbia già idonei modelli preventivi o che se ne doti ex post, ci si attivi al più presto nella difesa e nella sua organizzazione.
Anche in tema di reati ambientali, specie per i nuovi delitti introdotti nel codice penale con la legge n. 68/2015, sono previste condotte riparatorie: si pensi alla possibilità del ripristino dello stato dei luoghi come condotta che, se operata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, consente una cospicua diminuzione di pena ex art. 452 decies c.p. Da un lato, quindi, il legislatore incentiva il ravvedimento operoso, dall’altro impone la confisca, anche qui, delle cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato, anche per equivalente, ex art. 452 undecies c.p. e impone, ex art. 197 c.p., alla società amministrata e rappresentata dall’imputato, il ripristino dello stato dei luoghi, con relativo costo a carico dell’ente. Visto che, peraltro, questi reati sono presupposto della responsabilità ex d.lgs. 231/2001, ben potrebbe l’ente ritrovarsi nel procedimento sia imputato in via amministrativa, sia citato quale responsabile civile ex art. 197 c.p.
Per i reati tributari, poi, è prevista (art. 12 bis d.lgs. 74/2000) la confisca, anche per equivalente, del profitto o prodotto del reato, consistente, per giurisprudenza ormai costante, nel risparmio di imposta ed anche in questo settore del diritto penale sono incentivate le condotte di collaborazione: la riforma introdotta con il d.lgs. 158/2015 consente al contribuente imputato di impegnarsi a pagare il debito con l’Erario e di ottenere così sconti di pena o la possibilità di accedere al patteggiamento. Tuttavia, laddove la Procura della Repubblica intervenga con un sequestro preventivo finalizzato alla confisca vi è spesso, nella prassi, il blocco totale dei conti correnti finalizzato alla confisca e la conseguente impossibilità del contribuente di versare il dovuto all’Erario per l’estinzione del debito tributario.
Ad oggi, peraltro, è previsto che, ex art. 12 bis, co. 2, d.lgs. 74/2000, la confisca non possa operare per quella parte che il contribuente si impegni a versare all’Erario, ipotesi che ricorre quando vi sia un formale accordo con l’Agenzia delle Entrate (piano di ammortamento rateale, adesione all’accertamento). A tal fine, sembrerebbe possibile ottenere, in fase di indagine, sempre in sede di interlocuzione con la Procura della Repubblica, un dissequestro parziale ex art. 85 disp. att. c.p.p. con prescrizione dell’Autorità giudiziaria ad utilizzare le somme per l’estinzione del debito fiscale, sotto vincolo di destinazione.
Il problema della confisca nei reati tributari, peraltro, non attiene ai beni delle sole persone fisiche: con la ben nota sentenza “Gubert” (Cass. Pen., Sez. Un., 30 maggio 2014, n. 10561) la giurisprudenza ha ritenuto che nelle ipotesi di illeciti penali tributari, che non sono allo stato presupposto per la responsabilità ex d.lgs. 231/2001, sia legittima una forma “nuova” di confisca diretta del denaro anche in assenza del requisito della disponibilità del bene in capo al soggetto che la subisca e, quindi, la confisca per equivalente e il relativo sequestro preventivo dei beni e conti correnti della società a cui appartiene (o apparteneva) il legale rappresentante imputato. L’approccio difensivo, quindi, dovrà essere considerato e valutato anche dall’ente i cui beni ben possono essere attinti dal sequestro preventivo finalizzato a tale peculiare ipotesi “mista” di confisca.
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del prof. Oliviero Mazza