Rapporto advisor - cliente

I SETTE VIZI CAPITALI

Sono ancora molti gli studi che continuano a commettere errori grossolani in grado di rovinare per sempre il rapporto con i General counsel. TopLegal, con l’aiuto degli in-house, propone alcuni esempi dei peccati in cui è più facile incorrere. E delle conseguenze che ne derivano

20-01-2015

I SETTE VIZI CAPITALI

La necessità di accaparrarsi mandati e nuovi clienti talvolta gioca brutti scherzi. E a rimetterci rischia di essere il rap­porto di fiducia che dovrebbe legare advisor e cliente. Le storture che viziano questo rapporto, rendendo quello italiano un mercato per molti versi ancora immaturo, sono delle più varie. Av­vocati che, anziché rivolgersi al General counsel, cercano ancora il contatto diretto con l’Ammi­nistratore delegato, magari su un campo da golf. 
Che importa se è la stessa società ad aver fatto più volte presente che la gestione della spesa le­gale è appannaggio solo della direzione affari le­gali. E non è l’unico caso in cui gli in-house sono trattati come un corollario al mandato, e non come gli interlocutori principali a cui rivolgersi.

Stando alle esperienze raccolte negli ulti­mi mesi da TopLegal, sono tanti gli studi che commettono ancora errori grossolani, senza mettere alcuna cura nella definizione di servi­zi specifici tagliati ad hoc per andare incontro alle esigenze legate ai diversi clienti. Come, per esempio, il sempreverde problema della lingua, con insegne italiane che tutt’oggi sperano di agguantare un mandato da una multinazionale (magari facendo le scarpe a una law firm inter­nazionale) pur masticando a stento l’inglese. Problema che tanti Gc di aziende estere pre­senti sul suolo italico continuano, imbarazzati, a mettere in luce.

A volte si tratta di errori fatti in buona fede. Per esempio, anche se è un atteggiamento ben lontano dalle richieste avanzate dai clienti, non si può certo parlare di mala fede quando gli studi inviano pareri di decine di pagine che girano intorno a un concetto facilmente espri­mibile in due fogli. Altre volte, però, gli advi­sor sembrano quasi voler sfidare gli in- house, mettendo in discussione il loro ruolo all’inter­no dell’azienda. In beffa alla necessità – sot­tolineata in tante occasioni – di potenziarne la funzione. Stando a quanto raccolto da To­pLegal, gli studi non sono esenti da alcuno dei sette peccati capitali. Abbiamo così deciso di raccogliere alcuni esempi di comportamenti ad alto tasso di ingenuità (se così vogliamo definirla), che hanno compromesso per sem­pre il rapporto tra alcune società e certi studi sprovveduti. Con l’augurio che possa servire a prevenire futuri errori di valutazione. 

Accidia 
Accidia, ovverosia la tentazione di cedere all’inerzia. E l’inerzia degli studi è forse il peccato più lamentato dai clienti. Sui consu­lenti che aspettano di essere chiamati in causa dagli in- house, sull’assenza di propositività e di innovazione di aneddoti se ne potrebbero raccontare tanti, perché sono mille le occasio­ni in cui gli studi operanti in Italia rimango­no inerti. Uno degli episodi più significativi è quello raccontato da un General counsel che, dopo aver fatto presente nel corso di una tavo­la rotonda la volontà di allargare il proprio pa­nel (sottolineando tra l’altro di avere una cifra decisamente considerevole destinata alla spe­sa legale), è stato contattato soltanto da uno delle decine di studi presenti al dibattito...

Invidia 

Sentimento doloroso frutto della frustrazione, talmente folle da far perdere di concretezza un consulente che si era preso la briga di esporre al General counsel tutte le pecche che, a suo dire, aveva un competitor. Pecche che natural­mente, secondo quel professionista, non ap­partenevano all’insegna di cui faceva parte. Fi­gurarsi lo stupore del General counsel quando, a distanza di appena tre settimane dall’acca­duto, ha saputo che il consulente, mentre elo­giava le doti della sua insegna screditandone un’altra, stava negoziando la sua uscita dalla stessa per passare in un altro studio. 

Ira 
Infuocarsi a vanvera: questo è il vero peccato. Avvocati che sbottano perché non possono più fare il bello e il cattivo tempo del mercato legale. Ma c’è un episodio iroso che ha avuto un risvolto quasi comico per il direttore affa­ri legali che ne è stato protagonista. Il partner italiano di uno studio internazionale si è rivol­to al cliente, con toni risentiti, pretendendo di sapere come mai negasse al suo studio la pos­sibilità di lavorare con la società. Divertente il fatto che, invece, quella stessa società si avva­leva della consulenza dello studio in questione addirittura in sei giurisdizioni. Ma l’avvocato, in preda alla furia, non si era nemmeno pre­occupato di controllare quel dettaglio. Per la legge del contrappasso, magari sarà toccato a lui subire lo sfogo di rabbia dal managing part­ner globale quando ha ricevuto la notizia che gli uffici italiani dell’insegna si erano preclusi ogni possibilità di lavorare con la società. 

Superbia 
Bisogna fare attenzione che la stima per se stessi non diventi disprezzo per gli altri. All’al­tezzosità dimostrata da un consulente che ha chiamato in causa il General counsel solo dopo aver cercato di procacciarsi il mandato diret­tamente alla fonte ( Amministratore delegato) durante una partita a golf, l’in- house ha potuto rispondere in un unico modo: rifiutando ogni possibile incontro. E non meno perplessità ha destato il comportamento di quell’avvoca­to che – preso dal desiderio di fare sfoggio di norme e legalese – ha tralasciato le ripetute richieste del cliente che, sottolineando le sue competenze in fatto di normativa, chiede­va pareri più sintetici e orientati al business. Ebbene, quel consulente ha pagato cara la sua presunzione: dopo il secondo richiamo, non gli è stata data una terza possibilità. 


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