Dopo l'editoriale di ieri sulla "questione forense" e il dibattito relativo alla presunta diffusa impreparazione di tanti aspiranti avvocati, abbiamo ricevuto molte e-mail di commento.
Tra le tante, abbiamo scelto di proporvi quella di un giovane praticante che ha sottolineato un aspetto fondamentale del problema. Non è la scuola o l'università che deve preparare gli avvocati di domani. Questo è un compito che va affidato anzitutto agli avvocati stessi.
Sono un giovane praticante del Foro di Milano, senza alcuna competenza pratica del diritto, ma con un grande desiderio di divenire, forse, un giorno, avvocato.
Ho molto chiaro, anche più di tanti maturi professionisti del diritto, quanto sia inadeguata la preparazione, non solo giuridica, ma altresì culturale, della mia generazione rispetto alla domanda, non degli studi legali, bensì del mercato reale, che comprende sia le grandi multinazionali, sia tante singole persone fisiche, ivi comprese quelle delle classi più disagiate della nostra società.
Sì, è vero, siamo impreparati! Di chi sia la colpa non sta a me dirlo: voglio fare l’avvocato, non il giudice… E non voglio neanche negare che gran parte di questa deficienza sia da imputare proprio a noi giovani. Il punto, e credo che questo sia il contributo utile che posso dare alla discussione, riguarda il modo con cui si può uscire da questa empasse. La premessa necessaria a quanto segue, però, è che la responsabilità di colmare il gap non grava unicamente sulla politica, e lo strumento non può individuarsi, unicamente, in una riforma. Il peso deve essere ripartito anche sulle spalle dei professionisti, che occorre avvertano la responsabilità che li investe, non solamente nei confronti del proprio ordine, ma nei confronti del Paese. Non è possibile lavarsene pilatescamente le mani.
Come al solito, occorre la collaborazione di tutti, sia dei neopraticanti che dei più anziani tra gli avvocati, in quanto la questione concerne la trasmissione di un sapere. Ciò, da che mondo è mondo, necessita di un insieme di maestri e di una cerchia di discepoli. Da questo rapporto biunivoco e necessario non si può sfuggire! Occorre, a mio avviso, che i più anziani, consapevoli del livello di partenza dei propri praticanti, realisticamente, si rimbocchino le maniche per costruire su quel che c’è, cioè, innanzitutto sulla voglia di apprendere e, quindi, sullo spirito di sacrificio e di abnegazione che sono dirette conseguenze della prima.
Su questi parametri andrebbe valutato il candidato praticante ed avviata la competizione. Non su quello che c’è già, ma su quello che può crescere.
Al contrario tanti studi accolgono a braccia aperte piccoli portatori di piccole competenze, spremendo tutto quello che si può, finché è possibile, salvo poi, in nome della competitività, scartare chi ha già dato tutto quello che poteva. Si creano così dei giuristi monchi, pieni sì di fame e competitività, ma con le armi spuntate, perché nel periodo in cui essi sarebbero dovuti essere riempiti, sono stati, al contrario, svuotati.
Occorrono dei maestri che si prendano a cuore la formazione dei nuovi professionisti , sotto ogni aspetto, con paternità. Ritengo quindi che il maggior sforzo dovrebbe giungere proprio dai professionisti, che spesso dimenticano la responsabilità di cui sono investiti nei confronti della società tutta, e che giustamente sottolinea il dr. Galgano.
Sono certo di poter affermare che, dinnanzi a dei professionisti che si rapportino con la nostra categoria in veste di veri maestri, non mancherà una risposta positiva a chi ci coinvolgerà nella edificazione della futura classe forense.
Concludo riportando quanto dettomi recentemente da un noto avvocato del foro milanese: “Ad una certa età, quando professionalmente si è fatto tutto quello che si doveva, ed anche economicamente non si ha più nulla da desiderare, l’unica vera gioia sta nel vedere che i giovani che negli anni ho cresciuto, adesso camminano con le proprie gambe”. (G.T.)