IL FASCINO PERICOLOSO DEL CONSIGLIO

Per l’Attorney Liability Assurance Society la presenza di un avvocato in un consiglio aumenta il rischio di malpractice

03-03-2011

IL FASCINO PERICOLOSO DEL CONSIGLIO

«Se un cliente ti chiede di essere nel suo consiglio d’amministrazione (cda), dire di no è quasi impossibile». La frase la ripetono come un mantra, gran parte degli avvocati che si occupano di affari e per i quali la presenza in un consiglio d’amministrazione è fondamentalmente un’occasione preziosa per rafforzare la propria relazione con il cliente. Spesso conta più essere il consigliori di un grande gruppo industriale (o della famiglia a capo di esso) che non esserne l’advisor legale.
Quella che in Italia appare una prassi, stride nel confronto con il contesto internazionale e in particolare anglosassone dove, invece, la presenza di avvocati nei board of directors delle società è generalmente proibita dagli statuti degli stessi studi legali o ammessa solo in casi eccezionali. La ragione è fondamentalmente una: accettare un incarico in un board espone il professionista al conflitto d’interessi e rappresenta un rischio per la reputazione dello studio di cui è socio. Secondo l’Attorney Liability Assurance Society la presenza di un avvocato in un consiglio aumenta il rischio di malpractice e allo stesso tempo indebolisce la strategia di difesa qualora venga mossa un’accusa di malpractice.
La presenza degli avvocati nei consigli di amministrazione delle società di capitali è regolata dalla legge professionale forense (r.d.l. 1578/1933) e dal codice deontologico. In particolare l’articolo 3 della legge disciplina i casi di incompatibilità con l’attività forense, precisando che è vietato “l’esercizio del commercio in nome proprio o in nome altrui”. «Questa disposizione è stata variamente criticata, ma l’interpretazione più condivisa», spiega a TopLegal il professor Remo Danovi, uno dei padri dell’attuale deontologia forense, «considera incompatibile, per un avvocato, assumere la carica di presidente, amministratore unico, amministratore delegato o liquidatore, poiché questi soggetti esprimono la volontà dell’ente e quindi di fatto esercitano il commercio in nome altrui. È stato peraltro anche affermato che, nel caso della carica di presidente, l’incompatibilità non sussiste quando il presidente abbia - per statuto - poteri solo rappresentativi e non gestori». È, invece, sempre consentita l’assunzione della carica di consigliere.
Pur ammettendo che la presenza degli avvocati nei cda è una consuetudine soprattutto italiana, Maurizio Panetti (nella foto), amministratore delegato della sede italiana di Heidrick & Struggles, società attiva nell’executive search e nella consulenza all’area delle risorse umane, sottolinea che «la presenza di un avvocato in un board può essere utile». Tuttavia, secondo Panetti, è fondamentale chiarire quale debba essere il senso di tale presenza. «Se tutto si deve limitare alle pubbliche relazioni», afferma l’a.d. di Heidrick & Struggles, «allora si tratta di una presenza da evitare. Diverso è se, invece, il ruolo dell’avvocato nel cda è legato a un determinato ciclo della vita dell’azienda».
L’avvocato che accetta un posto da consigliere, in ogni caso, non può agire in conflitto d’interesse e deve mantenere la propria indipendenza. Ma, concretamente, questo cosa significa?
«Mi pare doveroso», osserva Danovi, «per un consigliere indipendente astenersi dall’assumere consulenze esterne in favore della società, che inevitabilmente si ripercuotono sul giudizio di indipendenza». Gli fa eco Panetti: «Se un board agisce come promotore dello sviluppo, allora trovo inopportuno che un avvocato che lavora per la società sieda anche nel cda».
Tuttavia, non sono rari i casi in cui gli avvocati che siedono in un consiglio siano anche, personalmente o attraverso il proprio studio, consulenti legali della società. (La versione integrale dell'articolo è sul numero di Marzo 2011 di TopLegal, già disponibile in e-edicola)


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