Tax

IL FONDATORE INGOMBRANTE

Le ultime uscite di soci dalle principali boutique fiscali sono in controtendenza con un mercato tuttora in crescita. Nonostante il modello di business competitivo, la struttura ormai fatica per un’assenza di governance

04-11-2014

IL FONDATORE INGOMBRANTE

La practice fiscale, notoriamente anticiclica, rappresenta in questo momento storico uno dei settori maggiormente redditizi per le insegne legali. Stando a quanto registrato nell’ul­tima ricerca del Centro Studi TopLegal, risalente al novembre 2013, l’andamento dei volumi di la­voro è costantemente in crescita. Colpa, o merito, dell’atteggiamento sempre più aggressivo adottato dall’Amministrazione finanziaria nei confronti dei contribuenti e di regole sempre più stringenti per l’implementazione di politiche fiscali legate all’internazionalizzazione delle imprese.

In parallelo con lo sviluppo del settore, anche il panorama degli studi legali dedicati al tax è andato via via crescendo. Agli inizi, a competere sul mercato legale vi erano, da un lato, le bouti­que fondate sul prestigio del loro fondatore e con un numero esiguo di professionisti e dall’altro le squadre interne degli studi domestici struttura­ti. Tra i due, a contendersi la loro fetta di clien­ti, stavano le società di consulenza e revisione fiscale, dedicati prevalentemente all’assistenza ordinaria. In pochi anni, anche a seguito di un sempre più prorompente insediamento degli studi internazionali nell’orbita fiscale, l’offerta di servizi tributari si è altamente differenziata. A oggi può essere sintetizzata in cinque modelli: le grandi boutique (con più di 50 professionisti), le boutique di fascia intermedia e di media taglia (con un massimo di 20 professionisti), i diparti­menti fiscali interni a studi domestici struttura­ti e multipractice, i dipartimenti tributari delle insegne internazionali e quelli delle società di revisione. Ognuna di queste strutture ha la sua identità e le sue peculiarità, nonché un proprio percorso di evoluzione nel tempo.

Secondo l’indagine TopLegal sui fatturati dei primi 100 studi in Italia risalente a due anni fa, il 2012 è stato un anno senza precedenti per le insegne tributarie. Rispetto al 2011, il fatturato delle strutture monopractice di tax era aumen­tato del 20% e il merito di questa crescita espo­nenziale è stato attribuito a una concomitanza di mandati e operazioni profittevoli che però non hanno visto una replica nell’anno succes­sivo. Il 2013, infatti, non ha registrato gli stessi numeri ma il risultato finale della practice per quell’anno non è stato comunque negativo. L’u­nica alterazione è stata segnata dalla riduzione del 14,4% del fatturato di Maisto e associati, de­cremento considerato dallo studio stesso come fisiologico e determinato da una serie di manda­ti strategici chiusi l’anno precedente.

A destare invece sospetti sulla stabilità inter­na delle strutture fiscali, sono state le uscite, nel primo trimestre del 2014, di tre soci – tra cui uno dei soci fondatori Stefano Petrecca e il partner responsabile della sede milanese Eugenio Romita, e 10 collaboratori dallo studio Di Tanno e associati seguite, lo scorso settembre dalla scelta di Paolo Ludovici di lasciare Maisto e associa­ti, studio dove era entrato nel 1991 per diventare partner nel 2000, per mettersi in proprio.
Tali movimenti hanno alimentato riflessioni in­torno alla salute delle boutique tributarie, soprat­tutto alla luce del fatto che si tratta di un mercato in forte espansione e che, dunque, anziché perdere risorse umane, impone alle insegne fiscali di raf­forzarsi al loro interno per rimanere competitive. 


In cerca di governance 
Molti osservatori sono concordi nel ritenere che la prima ragione che ha indotto l’uscita di profes­sionisti da boutique di settore, storiche e conso­lidate, sia attribuibile alle spinte e alle dinamiche interne. Con il passare degli anni, quelli che in passato erano i punti di forza delle boutique che gli hanno permesso di dominare incontrastate il mercato fiscale sono, ad oggi, inadeguate in un contesto ad alto tasso di competitività e con mar­gini di guadagno sempre più stretti.

Al principio, infatti, questo tipo di insegne hanno fondato la loro fortuna sulle dimensioni della struttura e sulla reputazione del fondatore. Si parlava di piccolo studio monotitolare, compo­sto da una manciata di professionisti, e edificato intorno alla figura del dominus, il quale si faceva carico di tutte le questioni giuridiche, affrontava direttamente il cliente e per il quale a ogni sua vittoria corrispondeva un riconoscimento per l’insegna, in termini di fama e credibilità. Inoltre, il fatto di offrire assistenza specifica in un unico comparto del diritto era sinonimo di elevata spe­cializzazione e di un servizio a misura del cliente. 
Oggi, quella centralità e quel blasone di cui ha sempre vantato il name partner, non solo non sono più sufficienti per competere con l’odierna differenziazione dell’offerta legale, ma possono anche creare conflitti interni alla stessa bouti­que e difficoltà gestionali. L’acuirsi degli istinti individualistici del fondatore, infatti, più che fa­vorire una lucida visione strategica comunemen­te condivisa da tutti i membri di una struttura di questo tipo, tende ad annichilire la personalità e l’autonomia dei suoi collaboratori. Inoltre, la forte personalizzazione insita nella natura della boutique si riflette poi sulle modalità di gestione della stessa e sui rapporti tra il vertice e la base.

La boutique, per definizione, nasce come struttura con un numero ridotto di professioni- sti (al massimo 15); con la crescita del fatturato, molte di queste squadre hanno investito sulle risorse umane fino a raggiungere quote elevate di professionisti creando squadre di 50/60 per­sone. A tali livelli è ritenuto assolutamente ne­cessario stabilire delle regole condivise e delle gerarchie che tengano conto del posizionamen­to dei singoli e del loro ruolo decisionale.

Al problema della governance, si aggiunge quello della successione. In una struttura dove tutto il lavoro ruota intorno al fondatore, dove non esistono altre leve a lui sostituibili ed equi­parabili, il ricambio generazionale che consen­te a un’insegna di permanere nel tempo è pres­soché assente. Inoltre, fintanto che il vertice persiste nel concepire lo studio come qualcosa di strumentale rispetto a se stesso, è improba­bile che tale tipo di struttura possa permane­re nel mercato legale oltre i suoi fondatori. È necessario, dunque, che dall’alto si creino le condizioni necessarie affinché i professionisti possano crescere e lo studio possa evolversi. 

Modelli e settori in evoluzione 
Appurato che una delle cause principali della fragilità delle boutique fiscali nasce dall’in­terno, ben diversa è la risposta che il mercato esterno dà all’interrogativo sulla crisi e sull’i­nadeguatezza di questo tipo di struttura. Gli orientamenti esterni, infatti, sembrano non avere alcuna influenza sui moti centrifughi che hanno portato all’uscita di fiscalisti da insegne di settore. Il mercato, infatti, continua a sce­gliere questo modello per numerose problema­tiche fiscali, soprattutto quando tra cliente e fondatore si è generato uno stretto rapporto di fiducia consolidato nel tempo.

Anche dalle classifiche stilate dal Centro Studi TopLegal si trova conferma di quan­to la boutique di tax continui a collezionare autorevoli e significative valutazioni, posi­zionandosi ai vertici in quasi ogni segmento del diritto tributario. Riconoscimenti dovuti al fatto che la clientela identifica la boutique quasi esclusivamente con il socio fondatore, a cui è legata da un rapporto di fiducia con­solidato nel tempo. Sul contenzioso fiscale, in particolare, la prima fascia è presidiata da boutique più o meno grandi, a dimostrazione che nell’attività giudiziale il mercato preferi­sce ancora l’elevata specializzazione nel set­tore specifico. Meno prorompente è invece la presenza della boutique nelle problematiche fiscali legate a temi internazionali, come il transfer pricing dove fa giocoforza la presen­za di un network consolidato, più rappresen­tativo nelle strutture multidisciplinari e in­ternazionali. Con la maggiore frammentazio­ne dell’offerta e le ridotte risorse economi­che di cui dispongono i clienti, quest’ultimi scelgono sempre più frequentemente rispetto al passato di affidare il mandato a un’unica insegna che si occupa di gestire tutte le pro­blematiche legali per limitare i costi.

La boutique ha bisogno di adattare la propria cultura interna e posizionamento a un mercato che cambia. Nel caso di strutture troppo lega­te al nome del fondatore serve un superamento dell’individualismo a favore di una maggiore condivisione delle strategie e dei poteri. Sposta­re l’asse dal name partner alla squadra e pun­tare su settori fino a qualche anno fa ritenuti marginali, come la fiscalità internazionale e il transfer pricing, sono alcuni dei suggerimen­ti proposti alle monopractice fiscali ferme su contenzioso e consulenza domestica, quest’ul­tima sostanzialmente in stallo. Ma nell’ultima analisi, la boutique fiscale come qualsiasi altra struttura professionale dovrà colmare un de­ficit di governance di notevole portata, a pre­scindere dall’andamento degli affari e dai rap­porti fiduciari. Senza un riassetto della cultura interna, l’alternativa è l’inesorabile declino e forse persino la cancellazione dal mercato. 

 


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