La practice fiscale, notoriamente anticiclica, rappresenta in questo momento storico uno dei settori maggiormente redditizi per le insegne legali. Stando a quanto registrato nell’ultima ricerca del Centro Studi TopLegal, risalente al novembre 2013, l’andamento dei volumi di lavoro è costantemente in crescita. Colpa, o merito, dell’atteggiamento sempre più aggressivo adottato dall’Amministrazione finanziaria nei confronti dei contribuenti e di regole sempre più stringenti per l’implementazione di politiche fiscali legate all’internazionalizzazione delle imprese.
In parallelo con lo sviluppo del settore, anche il panorama degli studi legali dedicati al tax è andato via via crescendo. Agli inizi, a competere sul mercato legale vi erano, da un lato, le boutique fondate sul prestigio del loro fondatore e con un numero esiguo di professionisti e dall’altro le squadre interne degli studi domestici strutturati. Tra i due, a contendersi la loro fetta di clienti, stavano le società di consulenza e revisione fiscale, dedicati prevalentemente all’assistenza ordinaria. In pochi anni, anche a seguito di un sempre più prorompente insediamento degli studi internazionali nell’orbita fiscale, l’offerta di servizi tributari si è altamente differenziata. A oggi può essere sintetizzata in cinque modelli: le grandi boutique (con più di 50 professionisti), le boutique di fascia intermedia e di media taglia (con un massimo di 20 professionisti), i dipartimenti fiscali interni a studi domestici strutturati e multipractice, i dipartimenti tributari delle insegne internazionali e quelli delle società di revisione. Ognuna di queste strutture ha la sua identità e le sue peculiarità, nonché un proprio percorso di evoluzione nel tempo.
Secondo l’indagine TopLegal sui fatturati dei primi 100 studi in Italia risalente a due anni fa, il 2012 è stato un anno senza precedenti per le insegne tributarie. Rispetto al 2011, il fatturato delle strutture monopractice di tax era aumentato del 20% e il merito di questa crescita esponenziale è stato attribuito a una concomitanza di mandati e operazioni profittevoli che però non hanno visto una replica nell’anno successivo. Il 2013, infatti, non ha registrato gli stessi numeri ma il risultato finale della practice per quell’anno non è stato comunque negativo. L’unica alterazione è stata segnata dalla riduzione del 14,4% del fatturato di Maisto e associati, decremento considerato dallo studio stesso come fisiologico e determinato da una serie di mandati strategici chiusi l’anno precedente.
A destare invece sospetti sulla stabilità interna delle strutture fiscali, sono state le uscite, nel primo trimestre del 2014, di tre soci – tra cui uno dei soci fondatori Stefano Petrecca e il partner responsabile della sede milanese Eugenio Romita, e 10 collaboratori dallo studio Di Tanno e associati seguite, lo scorso settembre dalla scelta di Paolo Ludovici di lasciare Maisto e associati, studio dove era entrato nel 1991 per diventare partner nel 2000, per mettersi in proprio.
Tali movimenti hanno alimentato riflessioni intorno alla salute delle boutique tributarie, soprattutto alla luce del fatto che si tratta di un mercato in forte espansione e che, dunque, anziché perdere risorse umane, impone alle insegne fiscali di rafforzarsi al loro interno per rimanere competitive.
In cerca di governance
Molti osservatori sono concordi nel ritenere che la prima ragione che ha indotto l’uscita di professionisti da boutique di settore, storiche e consolidate, sia attribuibile alle spinte e alle dinamiche interne. Con il passare degli anni, quelli che in passato erano i punti di forza delle boutique che gli hanno permesso di dominare incontrastate il mercato fiscale sono, ad oggi, inadeguate in un contesto ad alto tasso di competitività e con margini di guadagno sempre più stretti.
Al principio, infatti, questo tipo di insegne hanno fondato la loro fortuna sulle dimensioni della struttura e sulla reputazione del fondatore. Si parlava di piccolo studio monotitolare, composto da una manciata di professionisti, e edificato intorno alla figura del dominus, il quale si faceva carico di tutte le questioni giuridiche, affrontava direttamente il cliente e per il quale a ogni sua vittoria corrispondeva un riconoscimento per l’insegna, in termini di fama e credibilità. Inoltre, il fatto di offrire assistenza specifica in un unico comparto del diritto era sinonimo di elevata specializzazione e di un servizio a misura del cliente.
Oggi, quella centralità e quel blasone di cui ha sempre vantato il name partner, non solo non sono più sufficienti per competere con l’odierna differenziazione dell’offerta legale, ma possono anche creare conflitti interni alla stessa boutique e difficoltà gestionali. L’acuirsi degli istinti individualistici del fondatore, infatti, più che favorire una lucida visione strategica comunemente condivisa da tutti i membri di una struttura di questo tipo, tende ad annichilire la personalità e l’autonomia dei suoi collaboratori. Inoltre, la forte personalizzazione insita nella natura della boutique si riflette poi sulle modalità di gestione della stessa e sui rapporti tra il vertice e la base.
La boutique, per definizione, nasce come struttura con un numero ridotto di professioni- sti (al massimo 15); con la crescita del fatturato, molte di queste squadre hanno investito sulle risorse umane fino a raggiungere quote elevate di professionisti creando squadre di 50/60 persone. A tali livelli è ritenuto assolutamente necessario stabilire delle regole condivise e delle gerarchie che tengano conto del posizionamento dei singoli e del loro ruolo decisionale.
Al problema della governance, si aggiunge quello della successione. In una struttura dove tutto il lavoro ruota intorno al fondatore, dove non esistono altre leve a lui sostituibili ed equiparabili, il ricambio generazionale che consente a un’insegna di permanere nel tempo è pressoché assente. Inoltre, fintanto che il vertice persiste nel concepire lo studio come qualcosa di strumentale rispetto a se stesso, è improbabile che tale tipo di struttura possa permanere nel mercato legale oltre i suoi fondatori. È necessario, dunque, che dall’alto si creino le condizioni necessarie affinché i professionisti possano crescere e lo studio possa evolversi.
Modelli e settori in evoluzione
Appurato che una delle cause principali della fragilità delle boutique fiscali nasce dall’interno, ben diversa è la risposta che il mercato esterno dà all’interrogativo sulla crisi e sull’inadeguatezza di questo tipo di struttura. Gli orientamenti esterni, infatti, sembrano non avere alcuna influenza sui moti centrifughi che hanno portato all’uscita di fiscalisti da insegne di settore. Il mercato, infatti, continua a scegliere questo modello per numerose problematiche fiscali, soprattutto quando tra cliente e fondatore si è generato uno stretto rapporto di fiducia consolidato nel tempo.
Anche dalle classifiche stilate dal Centro Studi TopLegal si trova conferma di quanto la boutique di tax continui a collezionare autorevoli e significative valutazioni, posizionandosi ai vertici in quasi ogni segmento del diritto tributario. Riconoscimenti dovuti al fatto che la clientela identifica la boutique quasi esclusivamente con il socio fondatore, a cui è legata da un rapporto di fiducia consolidato nel tempo. Sul contenzioso fiscale, in particolare, la prima fascia è presidiata da boutique più o meno grandi, a dimostrazione che nell’attività giudiziale il mercato preferisce ancora l’elevata specializzazione nel settore specifico. Meno prorompente è invece la presenza della boutique nelle problematiche fiscali legate a temi internazionali, come il transfer pricing dove fa giocoforza la presenza di un network consolidato, più rappresentativo nelle strutture multidisciplinari e internazionali. Con la maggiore frammentazione dell’offerta e le ridotte risorse economiche di cui dispongono i clienti, quest’ultimi scelgono sempre più frequentemente rispetto al passato di affidare il mandato a un’unica insegna che si occupa di gestire tutte le problematiche legali per limitare i costi.
La boutique ha bisogno di adattare la propria cultura interna e posizionamento a un mercato che cambia. Nel caso di strutture troppo legate al nome del fondatore serve un superamento dell’individualismo a favore di una maggiore condivisione delle strategie e dei poteri. Spostare l’asse dal name partner alla squadra e puntare su settori fino a qualche anno fa ritenuti marginali, come la fiscalità internazionale e il transfer pricing, sono alcuni dei suggerimenti proposti alle monopractice fiscali ferme su contenzioso e consulenza domestica, quest’ultima sostanzialmente in stallo. Ma nell’ultima analisi, la boutique fiscale come qualsiasi altra struttura professionale dovrà colmare un deficit di governance di notevole portata, a prescindere dall’andamento degli affari e dai rapporti fiduciari. Senza un riassetto della cultura interna, l’alternativa è l’inesorabile declino e forse persino la cancellazione dal mercato.
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