IL PROCESSO INEFFICIENTE ALLONTANA IL CLIENTE

Altro che “causa che pende”… Gli avvocati analizzano le ragioni che inchiodano l’Italia al 157esimo posto della classifica di Doing business sul fronte della protezione giudiziaria. Anche le toghe hanno le loro colpe, ma incidono solo sul 20% dei tempi di un procedimento

06-10-2011

IL PROCESSO INEFFICIENTE  ALLONTANA IL CLIENTE

«La durata stimata dei processi ordinari in primo grado supera i 1.000 giorni. L’incertezza che ne deriva è un fattore potente di attrito nel funzionamento dell’economia, oltre che di ingiustizia. Nostre stime indicano che la perdita annua di prodotto interno lordo attribuibile ai difetti della nostra giustizia civile potrebbe giungere a un punto percentuale». L’allarme è stato lanciato il 31 maggio dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, nella sua relazione annuale. Ed è strettamente collegato a un’altra puntualizzazione fatta in un diverso passaggio delle sue “Considerazioni finali”: «Le imprese italiane sono in media il 40% più piccole di quelle degli altri Paesi nell'area dell'euro... e i passaggi da una classe dimensionale a quella superiore sono rari». Ecco due ragioni per cui da un decennio l'Italia ha smesso di crescere.
Un’impresa - soprattutto se giovane, a conduzione familiare o poco conosciuta dal mercato - per crescere ha bisogno di risorse che possono arrivare dalle banche o dall’ingresso di nuovi azionisti. Ma una banca, o nuovi soci, saranno disposti a finanziare l'azienda e ad assumerne i rischi, solo se, nel caso di una controversia con l'imprenditore che guida l'azienda, potranno far valere i loro diritti di fronte ad un giudice ottenendo una sentenza equa in tempi ragionevoli. Altrimenti addio investimenti, credito e capitali.

«Nell’ultimo rapporto Doing Business della banca mondiale che monitora ogni anno la legislazione d’impresa in 183 Paesi», ricorda Fabio Bianconi di Georgeson, la società internazionale di consulenza nei servizi di shareholder response e corporate governance advisory, «l’Italia si piazza al 59esimo posto come livello di protezione totale degli investitori ma al 157esimo come protezione giudiziaria». Qualche esempio di scarsa protezione? «Il risarcimento danni promosso nel 2003 da un gruppo di piccoli azionisti di Fondiaria Sai nei confronti di Premafin e Mediobanca per la mancata Opa congiunta sulla compagnia fiorentina: la causa che è stata vinta in appello e rigettata in seconda istanza, oggi è ancora aperta». Sulla vicenda hanno insistito diversi ricorsi da parte di  azionisti e investitori istituzionali con 10 procedimenti giudiziari avanzati dal 2001. Su quattro sentenze favorevoli in primo grado agli azionisti due sono state bocciate in appello. Ad esempio Premafin si è vista ribaltare nel 2007 in secondo grado una sentenza del 2005. Nel 2008 una sentenza dell’ottava sezione del Tribunale di Milano, ha dato ragione agli azionisti di minoranza (retail e istituzionali). «In ogni caso il procedimento è ancora in corso, e sono passati 10 anni», ribadisce Bianconi.

E le colpe dei legali? Gli avvocati devono fare un mea culpa? Secondo il Centro studi Confindustria, la crescita del numero degli iscritti agli Albi (passati dai 48mila del 1985, agli oltre 200mila del 2009) può esser messa in relazione all’incremento dei procedimenti civili che nell’ultimo ventennio sono cresciuti di 2,5 volte. C’è poi l’opinione diffusa che i legali siano, in qualche misura, corresponsabili dell’allungarsi dei tempi delle cause: «Gli avvocati», si legge nel rapporto del CsC, «in genere sono pagati sulla base del tempo e del numero di atti dedicati a ciascun procedimento a prescindere dall’esito della causa».
Sul punto Castellani ribatte che i legali «possono abbreviare i tempi di gestione completa che però valgono un quinto dei tempi normali. Il resto prescinde da noi. Anche perché la lentezza è aumentata rispetto agli anni ’50 e ’60: c’è stato un ragionevole miglioramento del primo grado ma resta un dramma per gli altri due e per le sentenze in Cassazione».
L’effetto della lentezza nei tempi della giustizia penale invece è duplice: «C’è l’effetto dovuto all’aumento dei costi per la difesa», spiega l’avvocato Ciro Pellegrino, specializzato nel diritto penale d’impresa e partner dello studio Gianni Origoni Grippo, «considerando che l’imprenditore deve rivolgersi necessariamente a un avvocato. Poi c’è il Dl 231 che prevede una conseguenza sanzionatoria sulle imprese per la responsabilità amministrativa. Per l’azienda la vera sanzione è il processo. E il discredito che subisce per il solo fatto di essere sottoposta a reato. Del resto, la giustizia fa rumore quando parte, se poi il reato viene archiviato non ne parla più nessuno». E le conseguenze sono per le imprese che vengono “macchiate” nella reputazione, per le banche che non chiudono i conti o non concedono i fidi e anche per parte della magistratura che censura questo comportamento. «Il problema nella giustizia penale», aggiunge Pellegrino, «è che le parti non sono libere di far cessare il procedimento quando vogliono. L’impresa è danneggiata soprattutto se ha rapporti con clientela retail o con la pubblica amministrazione che ha paura a lavorare con aziende che hanno aperti dei procedimenti penali. Le banche chiudono i rubinetti, la pubblica amministrazione chiude i canali di comunicazione. Servirebbe un’amnistia, in Italia l’ultima è stata fatta alla fine degli anni ’80. Una forte depenalizzazione farebbe ripartire la macchina della giustizia». (la versione integrale dell'inchiesta è disponibile sul numero di ottobre di TopLegal)

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Gianni & Origoni CiroPellegrino Banca d'Italia, Confindustria


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