La disintermediazione è in atto: le imprese italiane stanno passando da una struttura del debito banco-centrica alle alternative di finanziamento basate sul mercato. A fine 2017 il ricorso al mercato pesava infatti per circa il 13,4% del finanziamento a debito delle imprese non finanziarie. Un dato che oggi è in linea con le maggiori economie europee, come la Germania (13,6%), e che è vicino alla media delle economie dell’Eurozona (15,9%). Nel 2007, al contrario, i titoli obbligazionari pesavano per meno del 6% del debito delle imprese non finanziarie italiane, mentre erano già quasi il doppio nell’area euro (in Germania erano al 9,5% e in Francia al 19,2%).
L’analisi è stata sviluppata dal Centro Baffi Carefin dell’Università Bocconi in collaborazione con Equita nel paper “The Italian corporate bond market: what is happening to the capital structure of Italian non financial companies?”, presentato la settimana scorsa da Stefano Caselli e Stefano Gatti in un evento organizzato insieme a Equita. Lo studio ha analizzato le emissioni inaugurali (ossia le prime emissioni di società che non avevano emesso bond nei precedenti dieci anni) annunciate dal 2009 in avanti (che però si sono concentrate numericamente dal 2013 in poi). «Il paper presentato fornisce dati rincuoranti sul ruolo assunto dai mercati dei capitali nella raccolta di risorse finanziarie da parte degli emittenti corporate come effettivamente complementare al sistema creditizio, complementarità che era l’obiettivo principale della riforma del 2012», ha commentato con TopLegal Paola Leocani, partner di Simmons & Simmons e a capo del debt capital markets. «Tuttavia — ha aggiunto Leocani —ancora servirebbero ulteriori mirati interventi normativi per agevolare il ricorso ai mercati da parte delle Pmi sia per semplificare processi e documentazione sia, soprattutto, per consentire l’ingresso di nuovi investitori specializzati in Italia».
A incidere sulla capacità delle imprese di spingere sul processo di disintermediazione è infatti la mancanza strutturale di una solida base di investitori domestici. Un recente studio del 2018 condotto su 500 emissioni di debito, citato dallo stesso paper del Centro Baffi Carefin, «mostra che gli investitori stranieri sono i più grandi acquirenti di titoli del debito emessi da società italiane non finanziarie». Gli investitori istituzionali e le banche domestiche rivestono un ruolo minore rispetto agli standard delle economie dell’area euro. «Questo significa — continua il paper — che una gran parte di aziende di piccole e medie dimensioni, che giocano un ruolo vitale per l’economia italiana, sono tagliate fuori da questa forma di finanziamento a causa della mancanza strutturale di una solida base di investitori focalizzati a livello domestico».
Tra le iniziative indicate da Andrea Vismara, amministratore delegato di Equita, ci sono: il miglioramento della regolamentazione, per evitare a titolo di esempio che le società debbano pubblicare un prospetto di più di 600 pagine per passare dall’Aim all’Mta; interventi per «rimediare ai danni causati dalla Mifid II sul settore dell’intermediazione e della ricerca azionaria»; la rimozione dei «conflitti di interesse delle grandi banche finanziatrici quando trattano con clienti corporate»; la revisione delle recenti modifiche alla normativa dei Pir; l’inserimento del debito delle Pmi nelle agevolazioni attraverso l’ampliamento della definizione degli investimenti che beneficiano di un’esenzione fiscale per fondi pensione e enti previdenziali per includere anche i fondi di debito oltre a quelli focalizzati sull’equity e sul venture capital.
Il nuovo panorama dei corporate bond
In dieci anni il Paese ha assistito da un lato a un aumento dei titoli obbligazionari di 83 miliardi di euro e dall’altro a una contrazione dei finanziamenti bancari di 118 miliardi di euro. Con un tasso di crescita del ricorso al mercato più alto che nel resto d’Europa. Tra il 2007 e il 2017 infatti la quota di titoli di debito sul totale del debito delle imprese è cresciuta dell’8,5% all’anno (Crescita percentuale media annua, Cagr) rispetto al +5,6% dell’area euro.
Di necessità virtù. La disintermediazione è guidata da diversi fattori. Da un lato, la diminuzione della disponibilità di credito bancario legata alla crisi e alle svalutazioni sui portafogli di non perfoming loans. Dall’altro, una politica monetaria che in questi anni, complice il costo del denaro al minimo storico e il quantitative easing, ha favorito l’appetito degli investitori. E che si mantiene accomodante. Nella riunione della Bce di gennaio il governatore Mario Draghi ha peraltro indicato che l’attesa è per un tasso di interesse invariato sui livelli attuali (allo 0%) almeno fino all’estate 2019 e comunque fino a quando necessario per assicurare il raggiungimento del target di inflazione nel medio termine, ossia prossimo – ma inferiore – al 2 per cento. In questo scenario, la conseguente riduzione dei rendimenti delle obbligazioni corporate, ha spinto gli investitori sulla parte più rischiosa del mercato obbligazionario per aumentare le possibilità di guadagno (dove aumenta il rischio, in genere aumenta il rendimento). Il risultato è che il mercato obbligazionario è diventato accessibile a una platea più ampia di imprese.
«L’appetito per il rischio di investitori affamati di rendimenti — rileva il report — ha probabilmente contribuito alla compressione degli spread tra le emissioni high yield e investment grade, rendendo i finanziamenti sul mercato del debito maggiormente fattibili e attrattivi per un più ampio range di potenziali emittenti». A questa dinamica si è poi aggiunta l’innovazione tecnologica che ha facilitato lo sviluppo di nuove forme di finanziamento come il peer-to-peer landing.
Così se storicamente il mercato obbligazionario italiano è stato dominato da banche e società finanziarie, lo studio del Centro Baffi Carefin ha messo in luce una maggiore eterogeneità, sia a livello di industria (20 differenti aree, dalla chimica ai beni di consumo) sia di in termini di esigenze finanziarie, tra cui comunque il refinancing gioca un ruolo importante. Quasi due terzi delle emissioni sono rientrate nel rating “investment grade”, mentre il 38% sono high yield. Inoltre, nonostante il fatto che nessuna fosse destinata agli investitori retail, per il 58,9% si è trattata di un’offerta pubblica, e per il 41,1% di un private placement. Ben il 79% è stato rivolto ai mercati dell’area euro. Infine, la dimensione delle emissioni è compresa tra un minimo di 5 milioni di euro fino a 1,6 miliardi, con una taglia media dei 329 milioni.
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