L'Italia è pronta ad accogliere il litigation funding? Come tutte le domande complesse, anche la risposta è altrettanto strutturata. Di matrice anglosassone, il litigation funding o third party funding (Tpf) permette a un’azienda di farsi finanziare le spese per un contenzioso da un fondo o società terza. Tale finanziatore, detto funder, riceverà in cambio una percentuale dei proventi derivanti dall’eventuale buon esito del contenzioso. Il fenomeno, nato per finanziare gli arbitrati internazionali, generalmente più onerosi, è oggi in crescita oltremanica e guarda in primo luogo alle aziende in procedura concorsuale e a quelle sotto stress finanziario. In Italia, i general counsel per ora stanno alla finestra: dalla ricognizione di TopLegal non sono infatti emersi casi dichiarati di ricorso allo strumento. Anche perché i manager sono restii a sbandierarne l’utilizzo per non dare segnali di debolezza economica. Tuttavia, il Tpf potrebbe rivelarsi uno strumento utile non solo per le aziende in difficoltà, ma anche per quelle in buona salute: permette di sostenere un contenzioso superando i limiti spesso angusti del budget aziendale.
Secondo lo studio “2019 Legal Finance Report” pubblicato dalla società Burford, colosso internazionale del litigation funding, sono due i principali driver per gli in house all’estero: la mancanza di liquidità o la volontà di capitalizzare i contenziosi. Lo conferma a TopLegal anche il general counsel di una grande azienda italiana: «Sto valutando da tempo il third party funding – racconta – poiché mi permetterebbe di fissare un budget preciso a bilancio, azzerando qualsiasi tipo di rischio relativo al contenzioso». Così il dipartimento legale può finalmente liberarsi dallo stigma di mero centro di costi e generare valore e incassi, affrontando e vincendo liti che non avrebbe altrimenti intrapreso.
A voler riassumere la posizione attuale dal punto di vista degli operatori del settore il terreno è fertile ma non ancora maturo. «In Italia non c’è ancora una realtà consolidata che si occupi di Tpf e i fondi esteri approcciano con cautela il Bel Paese», spiega un finanziatore che sta preparando lo sbarco, indicando come sia necessario per queste realtà costruirsi una rete di avvocati qualificati ben radicati sul territorio.
Come cambia il rapporto fiduciario
«Chiedendo a questi investitori il track record si notano esclusivamente nomi di aziende straniere. Questo mi ha fatto capire che il fenomeno è ancora agli albori in Italia», ha fatto notare un general counsel. Se l’alta litigiosità rappresenta un motivo di appeal per i fondi, quali sono i motivi strutturali che frenano il mercato? La lentezza di alcuni fori italiani e la mancanza in Italia del principio del precedente (una stessa causa può essere decisa in modo diverso da altri giudici) sono fattori che comportano un maggiore rischio di soccombenza. Tale rischio, quando non si traduce in un diniego al finanziamento, alza la richiesta economica da parte del funder.
Inoltre, la cultura deontologica forense diffida dell’inserimento di un terzo soggetto nel rapporto fiduciario tra avvocato e cliente perché vede in esso un potenziale conflitto deontologico. Contrariamente a questo, gli intervistati non hanno rilevato particolari criticità laddove l’obiettivo rimanga il medesimo, ovvero ottenere la vittoria in giudizio. In tale prospettiva, il finanziatore si pone come agevolatore della buona riuscita del contenzioso e non come ostacolo ai rapporti esistenti. A riprova, il fatto che la richiesta di finanziamento non parte solo dagli in house ma anche dagli stessi studi legali. In questo caso, l’avvocato propone la soluzione del finanziamento in modo tale che l’assistito possa intraprendere cause particolarmente complesse e costose, seppur legittime. Con la certezza, per entrambi, che la parcella verrà saldata.
Il finanziatore interventista
Il ruolo di facilitatore non comporta sempre una figura defilata. Nelle giurisdizioni più mature, in cui i contenziosi sono più prevedibili, vige una politica liberale: l’investitore interviene soltanto nella fase iniziale di valutazione del finanziamento, lasciando la scelta dell’avvocato e della linea difensiva al finanziato. «L’Italia però è un mercato ancora acerbo con un sistema giudiziario maggiormente imprevedibile – spiega un funder – perciò può funzionare soltanto un modello interventista, in cui il finanziatore entra in modo più invasivo nelle scelte che riguardano il contenzioso». Questo si traduce in maggiore potere di veto sulla scelta del difensore e della strategia difensiva e di conseguenza nella nomina di co-difese, in cui l’avvocato scelto dalla parte finanziata e quello scelto dal finanziatore rappresentano congiuntamente gli interessi delle parti coinvolte.
L’accompagnamento del finanziatore durante il contenzioso può altresì tradursi in un supporto di tipo manageriale e tecnico (per esempio nella quantificazione del danno). «Come società di litigation funding - racconta Gian Marco Solas, legal counsel di Omnibridgeway - riteniamo che il supporto finanziario sia solo uno, benché preponderante, dei servizi che possiamo fornire ai clienti. Offriamo anche asset tracing globale e, con l'ausilio di sofisticati software che uniscono l'analisi finanziaria alle statistiche giurisprudenziali, attività di analisi e gestione del rischio».
Infine, fare l’ingresso in un mercato come quello italiano comporta un elevato grado di conoscenza sulle squadre legali e dei fori. «Per esempio – spiega Solas di Omnibridgeway – una caratteristica tutta italiana è l’eccellenza delle boutique e dei piccoli studi monopersonali. Perciò non guardiamo tanto alla dimensione e reputazione dello studio legale ma ci focalizziamo più sull’esperienza del singolo difensore». Gli esperti sottolineano infatti come non ci siano panel predefiniti di professionisti con cui i funder si prefiggono di lavorare, bensì ogni lite e ogni avvocato coinvolto nella stessa vengono esaminati caso per caso, valutando le loro competenze in relazione al foro e al mercato di riferimento.
Litigation funding, i primi dati
Il litigation funding o third party funding (Tpf) è uno strumento in base al quale un soggetto terzo finanzia gli oneri e le spese di una delle parti coinvolte in un contenzioso. Di matrice anglosassone, nato per finanziare gli arbitrati internazionali, generalmente più onerosi, si è esteso ai contenziosi giudiziali e stragiudiziali. A livello di settori, può rivelarsi utile in infrastrutture e trasporti, in cui il trasferimento dei rischi del contenzioso permette di snellire le tempistiche dei lavori, e allo stesso modo nell’energy, responsabilità medica e procedure antitrust.
La parte finanziata, dunque, può avviare o resistere a un procedimento giudiziale o arbitrale senza doverne sopportare le spese, anche in caso di soccombenza nel processo. In caso di vittoria, il funder otterrà invece una percentuale sui proventi del contenzioso tra il 5-10% e il 30-35%, in base a tipologia e difficoltà del caso, al foro e al rischio assunto. La due diligence del finanziatore è però minuziosa.
«Per decidere se procedere con un finanziamento – spiega Louis Young, co-founder del fondo Augusta Ventures – si compie una prima valutazione sulla qualità dell’avvocato e dello studio coinvolto, sull’oggetto e il valore della causa, sulla proporzionalità tra quanto richiesto dall’attore e il valore della lite e sulle capacità del difensore di controparte. In seguito si passa alla valutazione del contenzioso nel merito tramite un’analisi del team di avvocati interno al fondo. L’iter può richiedere anche un mese».
Non esiste in Italia una disciplina organica sul Tpf, ad eccezione del regolamento della Camera Arbitrale di Milano, che ha previsto un obbligo dichiarativo circa l'esistenza del finanziamento e l'identità del finanziatore.
L'intervista è altresì consultabile su E-edicola, numero di aprile-maggio 2020 di TopLegal Review.