Un colore per descrivere la politica forense italiana in materia di giuristi d’impresa? Il grigio. È un bilancio problematico quello che è stato fatto ieri, a Roma, in occasione del terzo General Counsel Day organizzato da TopLegal in collaborazione con lo studio legale internazionale Dla Piper.
Ai lavori hanno partecipato il managing partner di Dla Piper, Federico Sutti e il socio Bruno Giuffrè, Arduino D’Anna, funzionario dell’Agcm, Ginevra Bruzzone, Vicedirettore generale di Assonime, Antonio Conte, presidente dell’Ordine degli avvocati di Roma, Marcella Panucci, general counsel di Confindustria, Raimondo Rinaldi membro del consiglio generale di Aigi e general counsel di Esso Italia, Pietro Galizzi, general counsel di Saipem, Sergio Marini, general counsel di Shell e rappresentante di Ecla, Gabriella Porcelli, membro del consiglio generale di Aigi e senior counsel di Philip Morris e Rocco Ramondino, membro del consiglio generale Aigi e responsabile corporate affairs per le società nazionali di Telecom Italia.
Il riconoscimento della figura professionale del giurista d’impresa è una questione controversa tanto all’interno della corporazione forense, quanto all’interno delle imprese stesse. Non hanno vita facile, quindi, gli in house italiani. Nella stragrande maggioranza dei Paesi europei, esiste un unico Albo per tutti gli avvocati. Il concetto predominante, quindi, è che la professione forense è una ma si declina in modi diversi, incluso quello che prevede l’assistenza ad un unico cliente del quale si è dipendenti. In Italia, e questo sembra un po’ un paradosso, sono iscritti in un elenco speciale, solo gli avvocati dipendenti della pubblica amministrazione e di società equiparate. Il paradosso, sta nel fatto che, se si va a guardare quali siano le società equiparate, si scopre che si tratta anche di colossi come Eni, Enel, Finmeccanica, Mps, Poste Italiane, Intesa SanPaolo e così via . L’unica differenza che passa tra queste realtà e analoghe realtà straniere o italiane, è che in questi ex giganti di Stato, il pubblico ha mantenuto una partecipazione.
Quasi in tutta Europa, poi, i giuristi d’impresa hanno lo ius postulandi, ovvero hanno la possibilità di rappresentare la loro azienda in giudizio e in alcuni casi hanno persino la possibilità di patrocinare per conto di altre imprese (non concorrenti). Ovviamente in Italia così non è. Ma come hanno sottolineato i consiglieri dell’Aigi (associazione italiana dei giuristi d’impresa) presenti all’incontro, questa non è un’istanza che interessa gli in house della penisola e i loro “clienti interni”, ovvero le società per cui lavorano.
In Italia, a differenza di quanto accade in Inghilterra, Irlanda, Svezia, Grecia o Portogallo, gli avvocati in house non godono neanche del legal privilege, ovvero delle tutele di riservatezza poste a protezione delle comunicazioni tra il giurista d’impresa e la società. Si è costretti a non mettere mai nulla per iscritto e a fissare procedure che consentano di tutelare il più possibile il rapporto legale-cliente interno arrivando, alle volte, a chiedere agli studi legali con cui si collabora di “custodire” documenti o pareri.
A proposito dei pareri resi dagli in house counsel, infine, va detto che l’Italia è praticamente l’unico Paese d’Europa in cui l’opinione dell’avvocato esterno e quella del giurista d’impresa non hanno lo stesso valore.
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