Organizzazione e business

L’arte di fare senza

Oltre la burocrazia, è ora di trasformare i collaboratori in sensori, progettare spazi di conversazione e puntare su agilità e leggerezza: ecco perché conviene procurarsi uno zaino. Intervista a Leonardo Previ

07-08-2018

L’arte di fare senza


Solo il 5,6% degli studi con più di 50 avvocati negli Stati Uniti ha molta fiducia nella capacità dei propri leader di affrontare le sfide che impone il mercato legale, mentre il 33% dichiara di avere poca fiducia nei propri partner. Sono alcuni dei dati più interessanti della survey Law Firms in Transition 2018 di Altman Weil, che svelano una spaccatura latente negli studi legali americani, e che lancia più di un campanello d’allarme per le realtà del nostro Paese.

Solo nel 2011 i dati erano invertiti: il 23,9% dichiarava di avere un’alta fiducia mentre era un residuale 7,8% a dichiarare di avere una scarsa fiducia nella propria leadership. Questo repentino cambiamento riflette, secondo l’indagine, la resistenza al cambiamento da parte dei partner (68,6%), la loro non consapevolezza di poter fare le cose in maniera diversa (60,2%) e la mancanza di difficoltà economiche che motivino cambiamenti significativi (58,7%). D’altra parte, secondo il campione, solo il 2% ritiene che i propri partner siano pienamente consapevoli dei mutamenti del mercato, mentre scende addirittura all’1,5% la quota di chi ritiene che i propri partner siano molto adattabili al cambiamento richiesto agli studi e al mercato legale.

Come organizzazioni di servizi gli studi non possono prescindere dalle necessità dei clienti. Complici uno scenario recessivo e l’avanzamento tecnologico, le aziende negli ultimi anni hanno cambiato pelle e hanno chiesto ai propri consulenti di fornire più valore che in passato, non solo riducendo o modificando le politiche tariffarie. Il 90,6% dei clienti degli studi dichiara invece che gli studi e il mercato legale stanno prendendo poco sul serio questa richiesta. Non bastano quindi slogan e iniziative una tantum, serve invece una riflessione profonda e un reale ripensamento del proprio modello di business.

Ne abbiamo parlato con Leonardo Previ, fondatore di Trivioquadrivio, società che offre servizi di consulenza organizzativa, apprendimento manageriale e alta formazione, docente di “Gestione delle risorse umane” all’Università Cattolica di Milano e recentemente autore di Zainocrazia – teoria e pratica di un futuro preferibile. Un volume, edito da Lswr, che si fonda sull’idea che ogni persona sia un giacimento ambulante di risorse inesauribili, che mobilità personale e convivialità siano gli strumenti più efficaci per rinnovare le risorse di cui ognuno dispone e che agilità e leggerezza aiutino le persone a non radicarsi nelle proprie abitudini. Quelle a cui gli studi e i loro partner sono troppo spesso legati.

Perché il cambiamento fa paura?

Il cambiamento non è una particolarità della nostra epoca e non è qualcosa che va fronteggiato, ma è qualcosa che caratterizza tutti noi. In questi anni siamo diventati meno attratti dai meccanismi complicati, che una volta studiati sono prevedibili, mentre si è aggiunta una diversa percezione del valore della complessità, che vede meno praticabile il tradizionale concetto di controllo manageriale e da cui siamo un po’ meno spaventati. Se assumiamo che in questi anni, oltre al cambiamento, gli studi hanno dovuto affrontare un aumento significativo delle relazioni complesse all’interno del mercato, la survey ci sta dicendo che i partner non hanno saputo tenere il passo di questo cambiamento. Il mercato legale è caratterizzato da una particolare inerzia che in altri settori è meno presente, e del resto è comprensibile se pensiamo che quello legale è un business fondato sulla fiducia. Una volta che lo studio ha conquistato la fiducia dei propri clienti, non guarda al cambiamento con facilità, guarda al cambiamento come un possibile rovesciamento di questa fiducia in una relazione diversa. Ma è preoccupante sapere che un partner non goda della fiducia dei propri collaboratori, perché questo potrebbe erodere la propria attività professionale.

Perché gli studi non hanno saputo tenere questo passo?
La ragione è che non hanno rischiato a sufficienza. Non si sono spinti in una direzione diversa rispetto a quella tradizionale, e naturalmente i primi che se ne accorgono sono quelli con cui lavorano. In questo senso Zainocrazia è un’istigazione a sporgersi, ad andare in una direzione dove l’esplorazione di ciò che non si conosce determina più valore dell’industrializzazione di ciò che si conosce. Nell’ambito legale questa massima è stata per lungo tempo condivisa. I legali devono esplorare l’ignoto, ovvero il luogo nel quale si offrono interpretazioni innovative. Gli studi che più di altri sono capaci di percepire la necessità di cambiare, quelli che più di altri si espongono al rischio e dunque innovano, probabilmente sono quelli nei quali i partner continuano a meritare fiducia. Non hanno paura dell’esplorazione, riconoscono nel potenziale, in ciò che ancora non è, la ricchezza e non sono spaventati dai rischi che questo potenziale inevitabilmente cela. Un’attitudine meno seduta e più dinamica, la capacità di lasciarsi alle spalle i propri successi: è sempre difficile, perché quando otteniamo successo tendiamo a rifare le cose che abbiamo fatto, e in questo forse alcuni avvocati sono simili agli artisti, che diventati molto famosi tendono a replicare la propria opera. In realtà l’arte più interessante è un continuo tradimento della propria identità, un continuo affrancarsi dal proprio successo. Successo è participio passato del verbo succedere, e quindi una volta successo dovrebbe stare alle nostre spalle. Non c’è successo senza successore. E il tema della successione è delicatissimo per gli studi legali. 

Uno studio è un’associazione professionale che dovrebbe essere per definizione composto da zainocrati. Le aziende oggi invece sembrano più avanti in questo processo di cambiamento.
Le aziende hanno ricominciato a correre e hanno assunto un passo al quale gli studi legali faticano a conformarsi. Le organizzazioni di impresa dovrebbero tutto sommato legittimamente essere composte da persone che guardano al posto di lavoro come al destino della propria attività professionale, ma negli ultimi anni hanno potuto comprendere con molta lucidità che i modelli organizzativi che abbiamo assunto in questa parte di mondo come gli unici modelli organizzativi praticabili dal dopoguerra a oggi stiano mostrando la corda. Non si riesce più a far soldi se si continua a essere organizzati in quel modo che agli inizi del ventesimo secolo si definiva scientifico: divisione del lavoro, verticalizzazione delle competenze, separazione delle abilità individuali, divisioni organizzative, silos. Tutto questo molto rapidamente sta lasciando il passo alle organizzazioni centrate sulla persona. Ecco, gli studi legali dovrebbero comprendere che i loro clienti stanno mutando pelle, stanno andando in una direzione in cui la orizzontalità produce più valore della verticalità. Gli studi legali sono luoghi nei quali si serve un cliente che si è abituati a riconoscere come organizzato in quel modo, si serve qualcuno che ha al proprio interno delle divisioni, dei compartimenti. E così a loro volta hanno al proprio interno dei dipartimenti, dei compartimenti, delle suddivisioni di cui i singoli responsabili sono anche piuttosto gelosi.

Qual è il ruolo della fiducia?
La fiducia è un fattore chiave. Quando io divido il lavoro non ho bisogno di avere fiducia in quello che mi passa una pratica, non ho bisogno di suscitare fiducia in quello a cui dovrò dare una pratica, è sufficiente che la pratica sia corretta, che ciascuno nella catena di montaggio del valore intellettuale faccia il proprio. Ma gli studi producono valore in maniera sistemica, non lineare, quindi i rapporti di fiducia diventano determinanti. Soprattutto se poi questa catena di montaggio ha sempre più frequentemente bisogno di fare quello che si chiama reverse engineering, di tornare sui propri passi, di riosservare se funziona. Inoltre anche in campo legale molte attività stanno per essere automatizzate. Alcune pratiche vengono già affrontate e risolte da macchine che in maniera automatica su tutto ciò che è standardizzabile sostituiscono gli umani. Cosa resta da fare all’umano, alla persona? Qui si entra nel campo della sperimentazione, dell’ambiguità, della complessità. Cito queste parole con riferimento a un acronimo, Vuca: volatility, uncertainty, complexity e ambiguity. Un mondo imprevedibile, impalpabile, complesso e soprattutto ricco di ambiguità.

 

L'articolo completo è disponibile sul numero di agosto-settembre di TopLegal Review.


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