L’AVVOCATO-CONSIGLIORE PAGA PEGNO

13-03-2014

Mps, Seat Pagine Gialle e, da ultimo, Risanamento. Le azioni di responsabilità cadono a pioggia sulle teste dei vertici aziendali. Una questione che sta coinvolgendo in prima persona gli avvocati d’affari, stando al numero di legali che siedono o hanno seduto nei cda delle società in questione. E non soltanto di queste. Sembra in atto, infatti, una pulizia sistemica. O, per meglio dire, una pulizia del sistema. Un sistema che ha visto per anni il confluire di due interessi distorti: da un lato, quello dell'advisor ad accaparrarsi l'esclusiva sul cliente con una poltrona in cda; dall’altro, quello del cliente a legare a doppio filo il suo consulente di fiducia mettendolo nel board. 

In Italia quella dell'avvocato-amministratore è una prassi atavica, quasi un punto di riconoscimento professionale, indice che il professionista ha saputo intessere un rapporto talmente stretto con il cliente come consigliere, da diventarne consigliore. Ma la prassi è tutta italiana, visto che nei paesi anglosassoni alcune law firm indicano esplicitamente ai propri legali di evitare di far parte dei cda. Secondo l'Attorney Liability Assurance Society, la presenza di un avvocato in un consiglio aumenta il rischio di illeciti e abusi, oltre a indebolire la strategia difensiva nel caso in cui sia mossa un'accusa di negligenza al professionista. Accuse che, in questi giorni, sono state mosse a più di un avvocato d’affari italiano. E per quanto gli studi in diverse occasioni abbiano sottolineato che le poltrone occupate nei cda sono incarichi ad personam, che in nulla inficiano le sorti dell'insegna, il discorso non torna. Se è innegabile, infatti, che avere un piede nella corporate governance di un cliente ha assicurato per anni lauti mandati alle insegne, perché negare che un'accusa di cattiva amministrazione aziendale possa avere riverberi negativi sullo studio? 

Si tratta di conflitti che un avvocato-amministratore estende allo studio di appartenenza, con un innegabile danno all'immagine dello stesso. Allora, forse, il ruolo dell'amministratore dovrebbe essere assunto da consulenti che sono ormai fuori dal mercato dell'assistenza professionale più qualificata. In altre parole, la decisione più saggia sarebbe scegliere se si vuole essere un uomo d’azienda o un avvocato. Eppure, la saggezza non è nostrana. Il gioco, evidentemente, vale la candela considerando che persino i professionisti degli studi internazionali, in Italia, valutano caso per caso l'incarico proposto. Mentre all'estero non c'è “caso per caso” che tenga e il rifiuto è la regola, in Italia, a quanto pare, dai rapporti di prossimità è troppo difficile prescindere.

E anche adesso che arrivano segnali di una pulizia in atto, non si può non notare che si tratta di segnali provenienti non dall'interno del sistema (sembra infatti che la moralizzazione sia ben lungi dai piani, sia dei clienti che degli studi), ma dal legislatore. Ennesimo segno che anche nel mercato legale italiano il cambiamento è ormai una conditio sine qua non, priva però di una presa di coscienza intrinseca.

Maria Buonsanto
maria.buonsanto@toplegal.it


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