Il debutto è timido. Eppur qualcosa si muove. Gli studi italiani hanno iniziato a comunicare nell’ambiente digitale. Il che significa investire maggiormente sui propri siti web, aprire account sui social network e comunicare come un brand. I numeri sono ancora bassi e la fotografia è a macchia di leopardo: se a livello di siti web esiste già un discreto dinamismo, le strategie social sono ancora agli albori. I dati emergono da una ricerca condotta congiuntamente da TopLegal insieme a The Story Group - Nati per Raccontarti, gruppo specializzato nella comunicazione digitale. La ricerca, in corso di pubblicazione e di cui TopLegal Review anticipa qualche risultato, ha voluto indagare lo stato dell’arte delle principali insegne italiane, i primi 25 studi nazionali, allargando l’analisi ai principali concorrenti internazionali. Per rispondere alla domanda: perché uno studio legale dovrebbe comunicare nell’area digitale? In altri termini, perché dovrebbe chiedersi se e quale identità sta assumendo nel mondo di internet? Se la comunicazione web è un tema complesso dalle molteplici sfaccettature, affonda però le proprie radici nella reputation: la maggior parte delle informazioni si producono e si consumano sul web e i social network stanno diventando sempre più “aggregatori” di tutto ciò che è rilevante nell’orizzonte pubblico contemporaneo. Le imprese, dopo una fase di titubanza, hanno già affrontato lo sbarco sul web e ne hanno tratto strategie di comunicazione innovative. Certo, le logiche di comunicazione degli studi sono ben diverse, soprattutto per il mercato italiano. Come più volte sottolineato anche da TopLegal Review, il mercato legale in Italia rimane molto autoreferenziale e poco strutturato, una complessità che presenta logiche di comunicazione peculiari, in cui la comunicazione indiretta, quella tra professionisti, è spesso più importante di quella diretta.
Le sfide digitali
Quando si parla di comunicazione digitale emergono però due temi che paiono strettamente legati alle maggiori sfide attuali e future delle insegne italiane. Da un lato, c’è lo sforzo in atto verso l’istituzionalizzazione, che passa anche attraverso la costruzione di un brand distintivo e riconoscibile. Come ci si muove su internet, come si comunica nel mondo digitale può essere un indicatore importante della capacità dello studio di aver compiuto il salto. O almeno, questo è quello che percepisce il mondo esterno.
La forza del brand pare sempre più essere un biglietto da visita imprescindibile per insegne che ormai competono in uno scenario allargato e che chiede per crescere di andare a cercare mandati non più solo sulla piazza locale, l’Italia, ma anche fuori confine. La strada qui è già tracciata dalle insegne straniere che di pari passo a una forte istituzionalizzazione hanno sviluppato una decisa identità digitale, sempre più protesa sui contenuti e su una evidente dimestichezza con le nuove tecnologie digitali, l’utilizzo quotidiano dei social network, lo sviluppo di app o piattaforme proprietarie di comunicazione con il pubblico. «In un mondo disintermediato – spiega Diego Lifonti, presidente di The Story Group - la reputazione è data dalla capacità di dialogare con i propri stakeholder e dalla capacità di condividere le competenze. Non è più tempo di rimanere silenti, anche per uno studio legale che, rispetto a molte aziende, ha il vantaggio di avere una padronanza quasi esclusiva di un tema, peraltro molto complesso come quello legislativo e legale. Farsi brand, soprattutto in ambito digitale, significa rafforzare la propria reputazione e mostrare il proprio know how: due attività che impongono di mettere in gioco una certa capacità editoriale, soprattutto per organizzazioni come gli studi legali il cui contesto settoriale è soggetto a un continuo mutamento (cambiamenti legislativi, nuove normative, indicazioni europee, trattati internazionali e così via)». Dall’altro lato, si affaccia una generazione di nuovi avvocati cresciuta al ritmo dei tweet. I social sono ormai una modalità di interazione sociale, che come il linguaggio è difficile pensare di “disinnescare” dalle abitudini delle nuove generazioni. E allora vanno gestiti. Qui si apre non solo il tema di come affrontare il rapporto tra comunicazione dei singoli professionisti e comunicazione dello studio ma anche, con un salto in avanti, l’opportunità di usare il mondo digitale in ottica di sviluppo interno, di crescita dei talenti e del lavoro di squadra. È plausibile pensare che nell’arco dei prossimi dieci anni tutto questo non sarà più un’opzione.
Newsroom o biglietto da visita?
È naturale che ogni studio si sia dotato, nel corso degli ultimi anni, di un sito internet. È un bene “posizionale”: serve a dichiarare la propria esistenza all’interno del mondo digitale. L’analisi condotta dalla ricerca di TopLegal e The Story Group è quindi partita da qui. Dall’osservazione dei siti internet dei 25 studi oggetto di indagine, emerge una certa tendenza consolidata a livello di design e struttura e una ricorrenza pressoché uniforme di alcune caratteristiche e di alcune sezioni, come il logo in alto a sinistra e le pagine dedicate ai professionisti.
A partire da questi elementi di struttura, ciascuno studio mostra un’evoluzione a livello di contenuti che rappresenta un barometro delle scelte operate internamente a livello di comunicazione: prediligere la riservatezza o spingersi nel territorio della “loquacità”. In generale, gli studi presi in considerazione si posizionano lungo un continuum che va dall’estrema discrezione (siti piccoli, poco dinamici, con poche sezioni e quasi nessun contributo editoriale) all’estrema comunicatività (siti ampi e molto aggiornati, spesso dinamici e dotati di piattaforme editoriali come blog e magazine, oltre ad avere una presenza sui social network). Un continuum che però può essere tradotto in quattro precise tipologie: sito biglietto da visita; sito vetrina; sito bibliografico; sito newsroom. La classificazione risponde alla presenza di alcune caratteristiche specifiche dei siti in esame: la presenza di strumenti di comunicazione come newsletter e sezioni news, la possibilità di visionare o scaricare documenti, la pubblicazione di un blog interno, l’approfondimento dei testi, l’utilizzo di foto o video. Dei 25 studi analizzati, un buon 20% si posiziona nella categoria newsroom, il modello che più si avvicina alla direzione già intrapresa dalle insegne internazionali. Si tratta di LabLaw, Legance, Nctm, R&p Legal e Tonucci. Per facilitare la navigazione e rafforzare l’engagement e l’accoglienza uno strumento usato dai siti internazionali sono poi le call to action. È il caso di Skadden Arps Slate Meagher & Flom che in un sito ricco di informazioni propone diverse “call to action”. In Italia, questa formula è adottata per esempio da BonelliErede che in apertura di sito, articolato in 13 sezioni, propone una call to action immediata: “Che cosa cerchi?”
Oltre la riservatezza
La scelta di utilizzare il proprio sito internet e in generale le proprie piattaforme come sede di un lavoro più ampio di ricerca e produzione di contenuti può avere un fine molto specifico: comunicare la padronanza dello studio sulle questioni dirimenti della professione, trasmettere la sua capacità di aggiornarsi e rimanere al passo coi tempi e rendere più semplice l’individuazione dell’insegna attraverso i motori di ricerca, presidiando più parole chiave possibile. Accanto al valore della riservatezza, si affianca quindi sempre più il valore di autorevolezza, intesa come la capacità di influenzare il panorama della professione legale in Italia attraverso innovazione, capacità espositiva e, in molti casi, puntualità rispetto alle trasformazioni legislative del nostro paese, dell’Unione Europea e degli stati in cui sono presenti. Con il risultato di diventare un interlocutore del dibattito contemporaneo. È in questa direzione che si stanno muovendo anche tutte le principali insegne americane e inglesi che stanno diventando veri e propri editori digitali che fanno anche ampio uso di tecniche quali lo storytelling. In questa prospettiva, gli studi internazionali pubblicano i riferimenti dei professionisti dedicati alle media relation, l’eventuale ufficio stampa di riferimento e modalità di contatto facilmente fruibili.
Dall’analisi del campione italiano sorprende invece che la maggior parte dei siti non dia alcuna rilevanza alle strutture di comunicazione dello studio, come per esempio i partner dedicati alle media relations. Un atteggiamento che evidenzia una sorta di dicotomia nella comunicazione digitale degli studi oggetto di questa analisi: da una parte il riconoscimento della necessità di andare online; dall’altra, la volontà di mantenere comunque un profilo riservato.
L’importanza del branding
Se uno studio legale decide di entrare nell’arena digitale, una delle prime azioni dovrebbe essere quella di dotarsi di un volto pubblico quanto più possibile univoco, e di essere in grado di trasmetterlo all’esterno. In poche parole, deve mostrare una certa capacità di farsi brand. Ecco perché la comunicazione digitale diventa una cartina al tornasole del grado di istituzionalizzazione dello studio. In base all’osservazione dei contenuti del sito, l’analisi ha quindi valutato il livello di branding comunicato dai diversi studi legali. Il branding è l’insieme di attività di de- finizione e comunicazione che permette a un individuo, un’azienda o un’organizzazione di sviluppare in modo univoco la propria identità, adottando un volto pubblico unico e parlando con un tono di voce ben riconoscibile.
Su questo fronte spiccano: LabLaw, Legance, Nctm, R& p Legal e Tonucci ( vedi infografica nella pagina precedente). L’analisi ha considerato elementi quali il grado di accoglienza della home page e la capacità di indirizzare l’utente verso le sezioni di interesse, le strategie Seo (acronimo che significa Search engine optimization) e di content marketing, e fattori quali il tono usato nella comunicazione e i segni grafici distintivi.
LinkedIn & Co.
Anche i social media rientrano nelle attività che concorrono a creare un brand nel mondo digitale. Questo però è uno dei terreni meno battuti dalle insegne italiane: quasi tutte le insegne considerate stanno muovendo i primi passi su LinkedIn, un gruppetto è sbarcato su Twitter mentre solo tre hanno una vera e propria pagina su Facebook. Tuttavia, qualcuna — Nctm — si spinge addirittura su Flipboard e Instagram e c’è chi — R&p Legal — ha aperto un account su Google+. Alcuni studi hanno mostrato una certa sensibilità verso l’uso del video e sette di essi utilizzano una piattaforma online, seppur spesso non troppo pubblicizzata (Toffoletto De Luca Tamajo, Nctm, BonelliErede, LabLaw, Legance, Gattai Minoli Agostinelli, R&p Legal).
Ventiquattro sui venticinque studi del paniere considerato hanno un proprio profilo LinkedIn. Che tipo di post condividono questi studi? LinkedIn viene scelto principalmente come estensione del sito, come luogo dove riportare le principali news sulle operazioni seguite, dove condividere la propria partecipazione ad eventi e conferenze, diffondere comunicazioni interne sugli avvocati e richieste di recruiting, parlare dei premi e dei riconoscimenti ottenuti. Rispetto al sito web, LinkedIn pare essere l’ambiente dove emerge maggiormente il tono di voce e l’identità unica degli studi, pur sottolineando che la maggior parte dell’attività riguarda condivisioni di notizie esterne e non lo sviluppo di un vero e proprio piano editoriale. Il profilo con più follower è lo studio Gianni Origoni Grippo Cappelli, seguito da BonelliErede e Chiomenti (dati aggiornati a inizio maggio). Tra i più attivi, come frequenza di post al mese, c’è BonelliErede, seguito da Tonucci e R&p Legal.
Diversi studi presenti su LinkedIn hanno mostrato interesse anche per Twitter. Tuttavia, solo sei sui 25 più grandi studi italiani analizzati sono presenti con un profilo su questa piattaforma. Si tratta di: Nctm, LabLaw, Chiomenti, Pirola Pennuto Zei, Legance, R&p Legal. L’indagine ha anche censito il numero complessivo di tweet riferibili al paniere considerato scoprendo che ammontano a un totale di 4.498. Un numero certamente esiguo nel mondo dei “cinguettii”. Gli studi più attivi sono LabLaw, Pirola Pennuto Zei e R&p Legal e Nctm. Quali contenuti viaggiano su Twitter nel mondo degli studi legali? Twitter viene utilizzato per la maggior parte delle volte come un luogo dove informare il proprio pubblico sulle news interne degli studi, ma soprattutto per informare su novità e aggiornamenti del settore. Spesso si parla dei premi vinti o si condividono le notizie sulle operazioni effettuate, ma raramente si tratta anche qui di un lavoro editoriale dell’insegna. L’utilizzo degli hashtag non è poi diffuso: non ci sono molti hashtag creati ad hoc e si usano, con parsimonia, quelli già esistenti.
Gli hashtag più comuni nell’ultimo anno sono stati “compliance” e “privacy”. Infine, il livetwitting è ancora per pochi: dei sei studi analizzati, sono tre quelli che si dedicano alla cronaca live degli eventi dello studio. Facebook viene utilizzato dalla maggior parte degli studi analizzati come localizzazione puramente informativa su dove si trovano. Su un campione di 25 studi analizzati, infatti 14 beneficiano di questa modalità (che non dipende da una scelta dell’insegna ma dall’attività degli utenti che decidono di localizzarsi), mentre solo 5 studi legali hanno creato una pagina.
La riluttanza degli studi ad abbracciare i social network si può spiegare attraverso una duplice lettura. In primo luogo, mentre il sito è uno spazio editoriale in cui è lo studio ad avere il controllo della situazione, i social sono il regno della disintermediazione dove si entra in un dialogo direttamente con il pubblico. Questo significa un aumento della complessità nella gestione della comunicazione. Eppure, internet parla già di loro, attraverso quotidiani online, blog di esperti, spigolature di altre notizie, talvolta nel chiacchiericcio indistinto dei social media. Con tutto ciò che ne consegue, come l’analisi di sentiment dei commenti del pubblico che possono essere non sempre benevoli. Nel nostro caso, peraltro, dall’analisi della conversazione online è emerso un sentiment abbastanza neutro nei confronti degli studi, in generale i commenti lasciati dal pubblico sono pochi, prevalentemente su Facebook e quasi mai critici. In secondo luogo, a fronte di questa complessità non pare immediata per un’insegna la logica alla base di una presenza social. Tuttavia, per la costruzione di un brand forte e coerente è necessario che tutte le voci che parlano dello studio, anche quelle non controllate, vadano nella stessa direzione. Senza dimenticarsi che chi compra i servizi legali sono quelle stesse persone che ormai sono sempre più abituate a scambiarsi opinioni e informazioni anche sul web. Anche per gli studi legali può essere così importante saper trovare una propria identità nella comunicazione social, sfruttando anche le occasioni di visibilità e prestigio garantite da eventi pubblici anche sulle piattaforme che possono sembrare meno “professionali” per l’attività di uno studio. Caso emblematico è stata la cessione del Milan a Li Yonghong, nuovo proprietario ufficiale. In questa occasione Gattai Minoli Agostinelli è stato taggato su Facebook e Twitter in moltissimi articoli riguardanti l’accaduto. Se avesse avuto una pagina Facebook e un account Twitter, un intervento dello studio avrebbe avuto un importante ritorno di engagement e di reputation. Come peraltro è successo a Ntcm, che coinvolto nella battaglia legale di Mogol contro gli eredi di Lucio Battisti ha scelto di condividere la notizia su Twitter ottenendo un buon engagement. Inoltre, i social possono rivelarsi uno strumento (ad oggi poco sfruttato) per rafforzare l’identità interna dello studio. Sempre Nctm, per esempio, organizza diverse iniziative “corporate” pubblicizzate anche tramite social, un esempio è la nuova Nctm corporate run. Ecco che un’iniziativa di employer branding, che sia anche un evento sportivo o una sfida calcistica tra studi, può venire supportata da una strategia social capace di coinvolgere i propri professionisti in iniziative sviluppate sotto la “bandiera” dello studio. Queste iniziative rimangono però spesso fuori dai radar della comunicazione social degli studi. Una circostanza che apre riflessioni su come declinare i social per potenziare il team building: pochi studi fanno leva sulle piattaforme digitali per creare uno “spirito di corpo” tra i professionisti e stimolare il confronto interno. «Le risorse digitali – afferma Lifonti - possono essere utili anche per la comunicazione interna e quindi lo sviluppo e la retention dei talenti. Anzi, risulta ancora più fondamentale per un business fatto di persone e di relazioni come quello legale. Se l’importanza della comunicazione interna e dell’employer branding verso i dipendenti è stata riconosciuta da settori come quello finanziario e industriale, molto più legati ai grandi numeri e alla tecnologia, dovrebbe essere ancora più centrale in un business fatto di persone dove il talento fa la differenza in un grado ancora maggiore. Sapersi raccontare come datore di lavoro di riferimento diventa infatti cruciale anche nell’ambito legale per garantirsi i candidati migliori, in grado di aiutare gli studi a crescere e a svilupparsi aumentando la propria reputazione e le proprie competenze».
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