L’evoluzione ESG nel private equity e venture capital

06-11-2024

L’evoluzione ESG nel private equity e venture capital

La crescente consapevolezza degli operatori del mercato finanziario, banche comprese, circa l’importanza della finanza sostenibile è stata principalmente dovuta negli ultimi anni al quadro normativo frutto dell’Action Plan del 2018, che ha introdotto il Regolamento SFDR (UE 2019/2088), il Regolamento Tassonomia (UE 2020/852), la Direttiva CSRD (UE 2022/2464) recepita lo scorso settembre dal D.lgs. 254/2024 e la Direttiva CS3D (UE 2024/1760). A ciò si aggiunge l’urgenza sempre più pressante della transizioni energetica ed ecologica che è sempre più divenuto un driver per gli investimenti privati.

È un dato di fatto che con la progressiva implementazione della regolamentazione comunitaria di sostenibilità, le strategie ESG sono sempre più presenti nei processi di valutazione e di investimento per tutti quegli strumenti finanziari non negoziati sul mercato dei capitali, destinati al finanziamento delle imprese non quotate. I fattori ESG sono diventati una variabile importante per un numero sempre maggiore di fondi di private equity (“PE”) e venture capital (“VC”), sia se verticali per investimenti che promuovono o perseguono obiettivi ambientali e sociali rispettivamente secondo la classificazione dell’articolo 8 e dell’articolo 9 del Regolamento SFDR, sia se generalisti. Questa costante tendenza è confermata dall’ultimo rapporto 2024 AIFI "Private capital e sostenibilità, prassi di mercato ed evoluzioni attese"[1] che ha preso in esame le risposte di 59 gestori, che attestano come la quasi totalità (98%) ha adottato policy ESG e un 85%, a prescindere dalla formale classificazione del fondo (i.e. articolo 6, articolo 8 o articolo 9) abbia integrato i fattori di sostenibilità in tutte le fasi di investimento, a partire dalla definizione di una potenziale pipeline, fino alla fase di due diligence, passando per l’engagement con le società e fino all’exit. Senza alcuna presunzione di esaustività, di seguito si evidenziano alcune delle soluzioni e pratiche che stanno caratterizzando le operazioni di M&A in chiave ESG.

Cuore del processo di investimento è sicuramente la due diligence ESG, funzionale alla strutturazione del deal dalla fase pre-closing fino a quella post-closing e necessaria per la conformità principalmente ai Regolamenti SFDR e Tassonomia, ma ormai anche alla Direttiva CSRD e prossimamente alla Direttiva CS3D. Negli ultimi anni, le sollecitazioni e le richieste di banche ed investitori hanno da una parte fatto emergere la carenza dei dati in capo alle società target ma al contempo le hanno sensibilizzate verso una loro gestione più consapevole, organizzata e funzionale alla divulgazione e condivisione con gli operatori finanziari e gli stakeholders. La progressiva entrata in vigore della Direttiva CSRD è sicuramente uno dei fattori che sta progressivamente portando le aziende a raccogliere e gestire dati ESG a tutto beneficio dei fondi e delle policy di investimento.

Ed infatti, l'esito della due diligence è cruciale per molte ragioni: per concordare il prezzo di acquisto (ivi compresa la valutazione della target nel caso di investimenti in equity), per negoziare gli “adempimenti” prodromici all'investimento, per ridurre o eliminare eventuali rischi ESG[2] ad esempio con specifiche condizioni al closing, per costruire dichiarazioni e garanzie ad hoc, per imporre “azioni ESG” post-closing da tenere presenti nell'allocazione dell'investimento e di eventuali costi aggiuntivi, per regolamentare gli obblighi di rendicontazione, per monitorare la gestione del rischio ESG, per implementare le politiche di governance del management e per il “voto attivo”. In presenza di questioni[3] di sostenibilità vi è la tendenza a richiederne il risanamento già nella fase pre-closing piuttosto che in quello post-closing, dove potrebbero attuarsi garanzie per danni ESG che dovrebbero essere provati con tutte le variabili del caso attesa la difficoltà nel dimostrare danni non sempre direttamente quantificabili, al netto di eventi ambientali dannosi che abbiano un impatto sul conto economico. È il caso, per esempio, della quantificazione del danno reputazionale che può essere di difficile determinazione soprattutto nel caso in cui la potenziale target ha un track record ESG debole o, nel peggiore dei casi, sia stata pubblicamente screditata per eventi che hanno avuto un impatto sui fattori ESG.

Nei contratti di investimento e/o di acquisizione di fondi così detti articolo 9 (che quindi perseguono obbiettivi di sostenibilità ai sensi del Regolamento SFDR), vengono sempre più frequentemente previste specifiche clausole con cui si pone a carico della target sia in corso di due diligence che per la fase post-closing, con una periodicità variabile, l’obbligo di disclosure dei dati che consentono le verifiche per la determinazione degli indicatori PAI (principal adverse impact) e del DNHS (Do Not Significant Harm)[4] e questo per escludere che l’investimento non arrechi un danno significativo di carattere sociale e ambientale.

Per quanto riguarda le attività ESG post-closing, la loro portata può dipendere (i) dal livello di conformità ESG della target, (ii) dall'ambito e dal perimetro dell'investimento (es. investimento articolo 6 oppure articolo 8 o 9 della SFDR) e/o (ii) dalla strategia di investimento dei fondi PE e dei VC. Nel caso in cui non si tratti di un investimento sostenibile tipicamente classificato come articolo 9 del Regolamento SFDR, le attività ESG successive al closing possono non essere obbligatorie ai sensi della legge e possono essere guidate “dall'ambizione sostenibile” dei gestori di creare valore in vista di una futura exit. Nel caso in cui si tratti di un investimento sostenibile così come qualificato ai sensi del Regolamento SFDR o di un investimento a impatto, viene spesso richiesto alle target di integrare pratiche di sostenibilità nel business model e di adottare policy mirate a mantenere o migliorare il livello di sostenibilità dell'azienda target, anche a causa degli obblighi di divulgazione e rendicontazione posti a carico dei fondi PE e VC dal Regolamento SFDR. Coerentemente, un fondo articolo 9 pone specifici covenant che impongono alla target per la vita dell’investimento anche la conformità al criterio DNSH, con il divieto di svolgere tutta una serie di attività che siano in contrasto con i fattori ESG, pena anche un exit anticipata disciplinata mediante “put option punitive” o ipotesi di recesso convenzionale dalla società. A tal proposito sono per lo più stringenti gli obblighi non solo di reportistica periodica ma anche di informativa per il verificarsi di eventi che possano avere un impatto sui fattori ESG.

Proprio nell’ottica di garantire una gestione e un monitoraggio dell’attività della target che sia conforme a criteri di sostenibilità, la struttura della corporate governance post-closing viene basata su chiari criteri ESG, con l'ingaggio di esperti in materia di sostenibilità e un chiaro sistema di poteri, deleghe e compiti per la responsabilità e la rendicontazione sia a livello di consiglio di amministrazione che di management. Nella maggior parte delle giurisdizioni occidentali, attualmente, non esistono specifici obblighi di diligenza relativi a performance ESG a carico degli amministratori, tuttavia la crescente importanza del fattore “G”, dovuta anche agli standard EFRAG, previsti per la rendicontazione della CSRD nonché alla prossima implementazione della CS3D, sta determinando e determinerà una sempre maggiore attenzione ai doveri degli amministratori. È indubbio che un forte impegno ESG da parte degli amministratori delle società in portafoglio può essere un'ulteriore leva per i fondi PE e VC nel raggiungimento di obiettivi sostenibili durante il ciclo di vita dell'investimento. Inoltre, il rapporto AIFI evidenzia come il Modello 231 rimane il presidio di governance maggiormente richieste a cui si affianca la richiesta di policy relative alla protezione della privacy e di iniziative in tema di cyber security.

Per quanto riguarda la gestione del rischio, a seconda del tipo di investimento, potrebbero essere previste politiche di governance in grado di avvalersi: di diritti di veto a livello di consiglio di amministrazione su questioni non conformi ai fattori ESG (ad esempio nelle acquisizioni di partecipazioni di minoranza), di diritti di cambio di amministratori a livello di Cda e/o di azioni correttive da intraprendere a sempre al livello di consiglio (ad esempio nelle acquisizioni di partecipazioni maggioranza), tenendo sempre presente che nelle società quotate l'“attivismo” è soggetto a meccanismi più complessi e con minore rappresentanza. In relazione al raggiungimento di obiettivi sostenibili, sta diventando molto comune che i PE e i VC, prima o dopo l'acquisizione, richiedano che i membri del consiglio di amministrazione e/o i manager abbiano una parte della loro remunerazione legata al raggiungimento di obiettivi ESG, prevedendo specifici KPIs, il cui raggiungimento deve essere coerente con piani industriali post-closing, ciò in ossequio all’articolo 5 del Regolamento SFDR.

Nella fase post closing di un deal ESG driven in cui gli azionisti esistenti sono ancora “a bordo” (ad esempio, nelle acquisizioni di maggioranza), si stabiliscono clausole statutarie di gradimento per evitare che gli azionisti di minoranza vendano le proprie partecipazioni a soggetti terzi la cui storia e/o attività di impresa non sia coerente con i criteri di sostenibilità. Può, quindi, accadere che un fondo non intenda acquisire la totalità del capitale nelle fasi successive all’investimento e in questo caso è fondamentale che l'eventuale ingresso di altri azionisti avvenga sulla base di una matrice ESG, che garantisca l'allineamento degli interessi dei nuovi azionisti con l'investitore e gli azionisti esistenti.

Con la revisione del Regolamento SFDR, attesa per metà del 2025 secondo le ultime previsioni dell’ESMA, potrebbero esserci ulteriori novità per il processo di investimento dei fondi che potrebbero impattare sulla struttura delle operazioni di M&A e sul ciclo vitale dell’investimento nelle target secondo i fattori ESG, in vista delle future evoluzioni della normativa non resta che arricchire sempre di più la prassi negoziale e contrattuale dei deal in corso e di quelli che all’orizzonte del 2025.

A cura di: Milena Prisco, Partner Pavia e Ansaldo



[1] https://www.aifi.it/it/tutti-gli-eventi/private-capital-e-sostenibilit-prassi-di-mercato-evoluzioni-attese
[2] I “rischi” ESG oggi sono definiti sia dal Regolamento SFDR che dalla Direttiva CSRD.
[3] Le “questioni” di sostenibilità sono oggi definite dal D.Lgs 254/2024, che ha implementato la Direttiva CSRD.
[4] Il criterio DNHS è previsto dal Regolamento Tassonomia.

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