L’imminente conversione in legge del “Decreto lavoro”

Le novità sui contratti a tempo determinato: una reale innovazione rispetto al passato?

28-06-2023

L’imminente conversione in legge del “Decreto lavoro”

 

Nel nostro ordinamento, i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato hanno da sempre rappresentato la forma comune di rapporto di lavoro.

Su tali presupposti, si ergeva la prima disciplina organica del contratto a termine, la legge del 1962, in base alla quale il ricorso ai contratti a termine era ammesso soltanto in presenza di specifiche fattispecie esclusive e tassative, rispetto alle quali si identificava e doveva essere dimostrata un’esigenza aziendale temporanea di natura organizzativa e produttiva.

Tale meccanismo produceva non soltanto una rigidità in entrata nel mercato del lavoro, ma altresì un contenzioso con costi rilevanti per le aziende, considerando le non rapide tempistiche processuali, tenuto conto che alla illegittimità del contratto a termine conseguiva la conversione del rapporto di lavoro in uno a tempo indeterminato, con ogni conseguenza rispetto alle retribuzioni maturate dalla c.d. messa in mora del datore di lavoro.

Per tali motivi, con la riforma del 2001, invero, veniva a tramontare  il modello del numero chiuso delle causali e si assisteva alla liberalizzazione dei contratti a termine, a fronte di ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo”. Anziché individuare ipotesi tassative, il legislatore, dunque, optava per una causale generale (c.d. “causalone”) per accedere al contratto di lavoro a tempo determinato, ed altresì attenuava i rischi di un eventuale conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, in particolare sotto il profilo economico, stabilendo una quantificazione predeterminata, sebbene flessibile.

Successivamente, a decorrere dal 2018, il legislatore indietreggiava, ammettendo la stipula di contratti a termine - per qualsiasi esigenza e per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione - ma solo per contratti di durata inferiore a 12 mesi. Inoltre, era possibile apporre un termine superiore, comunque non eccedente i 24 mesi, solo in presenza di almeno una delle ipotesi tipizzate, ossia: a) esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze sostitutive di altri lavoratori; b) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria.

Superato tale limite, in assenza delle causali che legittimavano l’estensione, il contratto si sarebbe trasformato automaticamente in contratto a tempo indeterminato.

Alla luce di quanto sopra, il contratto a termine tornava ad identificarsi come contratto “speciale”, di applicazione non ordinaria nell’ambito di una accezione negativa quale contratto in grado di favorire la precarietà dei rapporti di lavoro subordinato; di qui la limitazione nel suo utilizzo.

Veniva prevista un’unica deroga: oltre il termine massimo di 24 mesi, un ulteriore contratto a tempo determinato della durata ulteriore di 12 mesi poteva essere concluso a condizione che la sottoscrizione avvenisse presso la competente sede territoriale dell’Ispettorato del lavoro e in presenza di oggettiva necessità identificata da idonea causale (ipotesi tuttavia raramente utilizzata nella prassi).

Il D.L. n. 48/2023, in materia di lavoro, in corso di approvazione definitiva, accede ad una via mediana, mantenendo la durata ordinaria dei contratti a termine in 24 mesi (di cui i primi 12 attivabili senza causale), e concedendo una delega alla contrattazione collettiva, sebbene integrata dalla possibilità di intese tra le parti. In altri termini, al fine di consentire un uso più flessibile del contratto a termine, il “Decreto lavoro” stabilisce, in particolare, che le causali indicate nei contratti di durata compresa tra i 12 e 24 mesi potranno essere (i) previste dai contratti collettivi; (ii) esigenze di sostituzione di altri lavoratori; (iii) esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva, individuate dalle parti, in caso di mancato esercizio da parte della contrattazione collettiva, e, in ogni caso, entro il termine del 31 dicembre 2024.

Di conseguenza, il datore di lavoro che intende prorogarlo oltre i 12 mesi dovrà verificare se i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali applicati definiscano tale aspetto ovvero se del caso concordare con il lavoratore una causale idonea tale da identificare le esigenze tecnico produttive idonee a legittimare la stipula dello stesso contratto temporaneo.

Ma vi è di più. Come per la proroga, anche in caso di rinnovo – ossia stipula di un nuovo e distinto contratto a seguito della scadenza del precedente – le causali saranno necessarie solo per il superamento del periodo di 12 mesi.

Ad ogni modo, l’intervento precisa che per il raggiungimento della soglia dei 12 mesi si computano solo i contratti a partire dal 5 maggio 2023.

Un’ultima menzione merita la modifica apportata ai contratti di somministrazione di lavoro. Come è noto, il D.Lgs. 81/2015 prevede, per l’utilizzatore, limiti quantitativi all’utilizzo di lavoratori forniti da un’agenzia interinale. Orbene, il Decreto lavoro stabilisce che nella soglia di utilizzo della somministrazione a tempo indeterminato (20% dei lavoratori a tempo indeterminato occupati presso l’utilizzatore) non si computano i lavoratori assunti con contratto di apprendistato, i percettori di ammortizzatori sociali e lavoratori svantaggiati rientranti nelle categorie individuate dalla normativa comunitaria.

L’intervento lascia, tuttavia, prive di risposta certa non poche questioni.

In particolare, quali peculiari forme dovranno assumere le causali per essere conformi al nuovo dettato normativo e non ritenere illegittimo il contratto a termine stipulato? Qual è, invece, l’effettiva portata del mandato attribuito alla contrattazione collettiva? In altre parole, sarà pur sempre necessario osservare specifici e limitati requisiti produttivi, tecnici od organizzativi – la cui definizione, tra l’altro, non è operazione del tutto facile - oppure no? E cosa accade, ad esempio, ove, dopo l’accordo individuale, intervenga la disciplina della contrattazione collettiva dapprima assente? In caso di proroga del contratto, il datore è tenuto a rispettare quanto previsto dal CCNL applicato? E in generale quali sono le conseguenze giuridiche della mancata aderenza nella realtà delle causali presuntivamente sottese alle effettive esigenze produttive e/o organizzative?   

Come emerge sopra, non pochi dubbi permangono sulla tenuta giuridica di un nuovo regime creato senza troppo coraggio, nella convinzione di tenersi equidistante ma al contempo contemplare le diverse sensibilità giuridiche e di politica del lavoro.

Ciò posto, oltre ad un maggiore impegno da parte di tutti gli attori coinvolti, può essere senz’altro utile il supporto di specialisti, in modo da evitare nella necessità di ingaggiare lavoratori a temine causali generiche, standardizzate o scollegate dalla realtà aziendale che ben potrebbero aumentare il contenzioso, oltre che rischi e costi di una legittima necessità organizzativa aziendale.

 

Per approfondimenti e dettagli:

Avv. Andrea Di Francesco

Studio Legale BDL

Via Bocca di Leone n. 78 – Roma

Via Santa Sofia n. 18 – Milano

066976341

andrea.difrancesco@studiobdl.it

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