Dopo un anno di reciproca conoscenza, tra occhieggiamenti e corteggiamenti, Alitalia ed Etihad hanno convolato a nozze. Lo scorso 8 agosto, a distanza di due mesi dalla sigla della lettera d’intenti, i due vettori hanno finalizzato un accordo da 1,758 miliardi che permetterà all’ex compagnia di bandiera italiana di trarre nuova linfa dall’unione con l’emiratina di Abu Dhabi. Un matrimonio atteso, che ha fatto tirare un sospiro di sollievo un po’ a tutti, dall’azienda al Governo, passando per i sindacati. Tutti in prima linea a salutare con soddisfazione la firma dell’accordo, concordi nel ritenere che il salvataggio di Alitalia fosse imperativo per dare nuova dignità al trasporto italiano e rilanciare la crescita del sistema Paese. Un’operazione industriale dal valore sistemico, quindi, che ha trovato il primo sponsor nella volontà politica di ben due governi, quello Letta prima e quello Renzi poi. E che agli studi legali in campo ha richiesto per essere vestita da un punto di vista legale una vera e propria opera di ingegneria giuridica, affiancata da un consolidato track record di relazioni istituzionali non soltanto in Italia, ma anche a livello europeo.
Non bisogna dimenticare, infatti, che l’accordo ha un’importanza strategica per il mercato aeronautico internazionale, in quanto ha costituito una tappa dell’integrazione dei mercati arabi con quelli nordamericani, attraverso l’utilizzo di un hub europeo, l’Italia. Dopo l’intesa con Etihad, il nostro è l’unico grande Paese del Vecchio continente in cui la maggioranza effettiva della compagnia di bandiera (seppure Alitalia, formalmente, non lo è più) è posseduta da un vettore di uno Stato extraeuropeo. L’operazione, quindi, sul fronte antitrust si è giocata a Bruxelles, dove avrebbe potuto trovare un ostacolo nella mancata applicazione del regolamento 1008/ 2008, in base al quale il controllo di una compagnia di bandiera deve restare in mano europea.
In un’operazione di tale portata sistemica, diventa chiaro che « gestire le problematiche connesse alla governance ha avuto egual peso dello stabilire le regole che dovevano sopraintendere la partnership industriale », sottolineano Giampiero Succi e Stefano Cacchi Pessani, coordinatori del team di Bonelli Erede Pappalardo che ha affiancato Alitalia Cai. Gli altri advisor schierati sul deal sono stati: Dla Piper e Chiomenti per Etihad; Lombardi Molinari Segni e Pedersoli e Associati con le banche (che in alcuni casi erano anche azioniste di Cai); e Gianni Origoni Grippo Cappelli & partners al fianco di Poste Italiane.
Il risultato delle trattative è stato che il 49% dell’ex compagnia di bandiera italiana è diventato di proprietà di Etihad, che si è impegnata a versare 560 milioni di euro per rilevarla e altri 600 milioni di investimenti futuri atti a cambiarne il volto. Il processo è stato completato da un ulteriore apporto di capitale, pari a 300 milioni di euro, da parte degli altri azionisti di Alitalia, tra cui Intesa SanPaolo, Poste Italiane e Unicredit. In aggiunta, le banche hanno supportato l’operazione con 598 milioni di euro sotto forma di ristrutturazione del debito a breve e medio termine. Mentre 300 milioni di euro sono stati accordati come nuove linee di credito.
Se questo è stato il risultato, arrivarci è stato tutt’altro che semplice. L’avventura con Etihad, iniziata nell’agosto 2013, ha trovato il nodo principale per gli arabi nelle pendenze passate di Alitalia. L’approccio di Etihad è stato chiaro fin dall’inizio: voleva investire sul futuro, lasciando indietro il passato, rimasto sulle spalle degli attuali soci. “ Un approccio, che per essere accettato dai soci, ha richiesto grandi sforzi », sottolinea Carlo Pedersoli, alla guida del team che ha affiancato Intesa SanPaolo ( storico cliente dello studio), che appena in febbraio aveva investito soldi per sanare i conti di un soggetto, Alitalia, che così com’era strutturato aveva scarse chance di sopravvivenza, indipendentemente dalle finanze dissestate.
Oltre ai conti, infatti, il vero problema del vettore era la mancanza di una strategia per il futuro. Alitalia non è strutturata per competere con le compagnie low cost, che avevano la meglio sul fronte dei voli nazionali. D’altronde, già da anni aveva man mano perso terreno anche sui voli a lungo raggio. Mancava, quindi, di competitività e, soprattutto, di una strategia su come affrontare il futuro. Etihad, invece, aveva un piano strategico ben preciso: rilanciare il lungo raggio di Alitalia, facendo diventare l’Italia hub per lo sviluppo emiratino in Occidente.
« La scelta di Etihad come partner è stata una scelta di business nata da considerazioni di natura industriale. Per questo, tanto la direzione legale interna quanto noi consulenti abbiamo avuto il compito di supportare il management di Alitalia nel realizzare il framework in cui questa scelta doveva muoversi », sottolineano Succi e Cacchi Pessani. E poiché Etihad era stata chiara nelle premesse, per portare a buon fine l’operazione il business profittevole doveva essere scisso da quello gravato da inefficienze. Così è stata costituita una newco nella quale l’emiratina è entrata al 49%. Nella bad company, ovvero ‘Old Alita-lia’, invece, sono andati a finire debiti ed esuberi strutturali.
« La parte più complessa dell’operazione come advisor delle banche è stata quella di individuare una struttura delle fonti all’interno della Old Alitalia che, consentendo le migliori prospettive di recupero in base a quello che sarà l’effettivo andamento di New Alitalia, contemperasse in modo equo gli interessi di tutti gli stakeholder », spiega Ugo Molinari – alla guida del team di Lombardi Molinari Segni che ha affiancato le banche – che sottolinea la centralità nell’operazione dell’atteggiamento collaborativo degli istituti.
Ma il rapporto con le banche non è stato l’unico nodo da sciogliere. L’altro grande impasse da superare erano gli esuberi. All’inizio della negoziazione con Etihad, Alitalia presentava più di 5mila persone coinvolte in programmi di solidarietà e/o cassa integrazione. Il tutto nel contesto di una situazione sindacale singolare, caratterizzata da una molteplicità di sigle sindacali superiori rispetto agli altri settori (confederali, sindacati autonomi, associazioni dei piloti e degli assistenti di volo). « Il General counsel di Etihad, Jim Callaghan (ex senior associate di Linklaters ndr), ha posto da subito la definizione della parte lavoristica come condizione essenziale e prioritaria per procedere all’acquisizione » , precisa Annalisa Reale, socio di Chiomenti che ha avuto il compito di seguire le trattative sindacali per Etihad. Il piano predisposto ha previsto l’apertura di una mobilità per 2.271 unità, la conversione/ ridefinizione della Cigs in essere, l’attivazione di nuovi e diversi contratti di solidarietà e la revisione del Fondo Volo presso l’Inps ai fini dell’incentivazione dei dipendenti in esubero.
La complessità, naturalmente, risiedeva nel numero di interlocutori al tavolo ( Alitalia, Etihad Airways, Air France, banche, società di factoring, parti politiche e sindacati) e nella necessità di coordinare le diverse istanze negoziali verso un unico obiettivo, il tutto nei tempi e alle condizioni economiche e finanziarie richieste da Etihad. « La parte difficile è stata illustrare e far comprendere all’establishment burocratico e finanziario il diverso modo di fare business di Etihad » , precisa Matteo Mancinelli, socio coordinatore assieme a Michael Bosco del team di Dla Piper che ha agito al fianco di Etihad. L’operazione rappresenta l’ultima delle collaborazioni tra i due soggetti, dato il rapporto istituzionale che lega Dla Piper alla compagnia di Abu Dhabi. Lo studio angloamericano, infatti, ha seguito tutta l’espansione del vettore nel mondo.
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