La bancarotta fraudolenta impropria resiste alla pronuncia di incostituzionalità

La Corte di Cassazione stabilisce che la norma non viola il canone della determinatezza della fattispecie penale e si presenta con caratteristiche coerenti con i principi costituzionali di riferimento

14-06-2023

La bancarotta fraudolenta impropria resiste alla pronuncia di incostituzionalità

 

La fattispecie di bancarotta fraudolenta cd. impropria, secondo la previsione di cui al comma 2 dell'art. 223 della Legge Fallimentare, non si presenta afflitta da incostituzionalità. La Suprema Corte ha ritenuto manifestamente infondato un motivo di doglianza sul punto che sollecitava l'intervento della Consulta per essere la norma interessata dal paventato contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione. Si rilevava, in particolare, che la norma fosse interessata dalla violazione del canone della determinatezza, per via di una nozione indefinita di operazioni dolose causative del fallimento. Gli Ermellini hanno parlato, sul punto, di reato causale certamente a forma libera “la cui condotta è sufficientemente definita da una serie di parametri che rendono conoscibile il precetto”. Quanto al lamentato contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., si riteneva che non apparisse definito il confine tra atti gestori leciti ed “il comportamento di chi ha voluto la causazione del fallimento” a danno dei creditori a parità di risposta penale. La Corte ha rilevato che è possibile attribuire la stessa risposta penale, anche a livelli di disvalore penale differenti, per condotte non analoghe tra loro, con il solo limite della irragionevolezza (Cass.pen., Sez. V, sent.,12.01.2023, n.846, data ud. 04.10.2022). La Cassazione ha, altresì, chiarito che la norma in esame esige che l'esito fallimentare sia “astrattamente prevedibile e solo in tal caso addebitabile al soggetto agente”. La condotta dolosa può, inoltre, ancorarsi anche ad un’operazione astrattamente lecita, laddove sia comunque prevedibile, da parte dei soggetti agenti, il dissesto societario in ragione delle attività compiute, ma non si ritiene necessario che l’esito fallimentare sia stato effettivamente previsto.

Viene evidenziato che la scelta terminologica effettuata nella definizione dell'elemento materiale, in connessione con la configurazione di un reato proprio del ceto gestorio di una società commerciale, fa emergere come le posizioni e le operazioni rilevanti siano legate “inscindibilmente” alla funzione qualificante, i soggetti attivi individuati dalla norma. La Corte ha avuto modo di rimarcare che le operazioni debbano essere dolose in quanto svolte “con abuso della propria carica” o, comunque, in contrasto con i doveri propri della stessa.

Risulta necessario, poi, al fine della tipicità della condotta, la sussistenza del nesso eziologico tra la stessa ed il dissesto societario. Se, infatti, l’artificiosità delle operazioni societarie poste in essere appaiono causalmente determinanti l’esito fallimentare, si configura appieno la condotta impropria da operazioni dolose.

Per costante giurisprudenza deve ritenersi, ai fini della configurabilità del reato nella sua dimensione oggettiva, che non è circostanza idonea ad interrompere il nesso di causalità, tra l’operazione dolosa e il successivo fallimento, nè la preesistenza di una causa in sè efficiente verso il dissesto, nè il fatto che l’operazione dolosa abbia cagionato anche solo l’aggravamento di un dissesto già in atto.

Eventuali operazioni dolose, pertanto, che abbiano aggravato la situazione di dissesto già esistente, ben possono assumere rilievo penale senza alcuna delle implicazioni in termini di violazione del principio di legalità. (Cass.pen., Sez. V, sent, n. 24.03.2023, n.12525, data ud.08.02.2023).

 

Avvocato Alfonso Trapuzzano

 

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