Mettere nero su bianco il processo di cambiamento nel delicato equilibrio tra studi legali e azienda. Registrando, di anno in anno, un percorso che sorprendentemente risulta essere più avanti di quanto si potesse immaginare.
È così che la General Counsel Agenda 2014, l’indagine condotta dal Centro Studi TopLegal tra i direttori affari legali delle principali aziende operanti in Italia, è giunta al suo terzo appuntamento.
Quest’anno hanno deciso di prendere parte al sondaggio i general counsel di 84 aziende – eterogene per dimensioni ed industries – rappresentative di tre cluster: multinazionali, grandi aziende italiane e piccole e medie imprese. Le prime sono da sempre considerate barometri funzionali a misurare le prassi messe in campo nei mercati esteri, più evoluti rispetto a quello italiano. Le grandi aziende, invece, tracciano la via che delineerà il futuro del mercato legale italiano; mentre le Pmi sono quelle che rappresentano la fetta maggiore del mercato e in cui gli advisor riescono ancora a strappare livelli maggiori di marginalità.
Ebbene, incrociando e confrontando le risposte fornite dai tre cluster, il risultato è quanto mai omogeneo e prosegue lungo la strada tracciata nel corso degli ultimi anni così come emersa nelle indagini precedenti: il cliente esige il taglio dei costi, sia interni che esterni, e la ricerca del valore del servizio.
Il maggiore elemento di criticità evidenziato dall’Agenda dei General counsel è la difficoltà a trovare una quadra tra la crescita del lavoro e il sostanziale stallo di risorse interne e budget.
In passato la crescita è stata l’altra faccia della medaglia della riduzione del budget. Infatti, la flessione di cassa destinata ai consulenti esterni permetteva alle direzioni di accrescere il lavoro internalizzato, rafforzando le expertise con l’acquisto di nuove risorse sul mercato. Ma oggi viene chiesto alle direzioni di fare un passo oltre. Il carico di lavoro continua ad aumentare per il 76,5% del campione, ma questo aumento non va di pari passo né con l’assunzione di nuovi professionisti (nel 69,1% dei casi la compagine interna è rimasta invariata), né con un aumento di budget destinato a consulenti terzi (invariato nel 53,2% dei casi e diminuito nel 25,3%). Come fare, allora, a produrre di più e allo stesso tempo ridurre i costi? La risposta sta nell’aumentare i margini di innovazione sia interni sia esterni.
Internamente si cercano soluzioni a basso impatto economico, come l’utilizzo di forme alternative di collaborazione – secondment, avvocati a contratto e paralegal – o l’outsourcing interno di attività non core, da trasferire a funzioni aziendali con un minor carico di lavoro. Nel rapporto con l’advisor legale, invece, oltre alla rinegoziazione delle parcelle a favore di una netta prevalenza di tariffazioni flessibili come il forfait e la fee con cap, si cerca l’ottimizzazione del valore del servizio acquistato all’esterno. È proprio sul valore che dovrebbe giocarsi maggiormente l’innovazione da parte dell’offerta, che invece rimane un tassello mancante per il 53,3% degli intervistati.
L’innovazione di servizio nella maggior parte dei casi si limita a un puro fatto economico. Invece, dalle risposte fornite dal campione preso in esame emergono nuovi obiettivi posti in capo alla direzione affari legali, che vanno verso una gestione più innovativa della consulenza esterna.
Su tutte prevale il partenariato in materia di formazione. Se aprire a nuove specializzazioni gioverebbe alla credibilità delle direzioni e al loro ruolo in azienda, è altrettanto vero che il panorama normativo in continuo mutamento pone gli uffici legali nelle condizioni di dover acquisire competenze anche in materie non ricorrenti nel business specifico, per le quali sarebbe una scelta antieconomica avere un professionista interno dedicato.
È in questi casi che gioca un ruolo importante la disponibilità degli studi esterni a fare formazione alle risorse già in pancia alle aziende, facendo aumentare la trasversalità delle competenze interne. Una scelta apparentemente svantaggiosa per lo studio esterno, che – trasferendo know how – sottrae un possibile mandato alle sue casse. Ma l’obiettivo, oggi, non deve più essere quello di cercare l’interesse immediato, quello di breve periodo.
Al consulente esterno è richiesto di avere una visione strategica e di diventare non solo advisor, ma partner del business. Sempre nell’ottica di diventare partner del business aziendale, molti General counsel evidenziano la necessità di fidelizzare i consulenti, soprattutto in ambiti non internalizzabili come il contenzioso, perché uno studio che lavora per più mandati può applicare tariffe migliori. Allora, si cercano formule che abbinino costi fissi molto bassi per il giudiziale seriale e fee con cap per le altre ipotesi giudiziali, da accompagnare a pareri forniti nelle materie al di fuori del normale corso di attività della società, che permettano di prevenire comportamenti potenzialmente a rischio di sanzioni e contenziosi.
Nonostante siano in tanti i General counsel in grado di individuare ipotesi di partenariato advisor-cliente a valore aggiunto, sono in pochi quelli realmente in grado di quantificare questo valore, soprattutto quando si analizzano le risposte fornite dal cluster delle Pmi. Il discorso cambia, invece, spostandosi sulle multinazionali e le grandi aziende italiane.
Mentre le prime applicano gli standard già collaudati all’estero, le seconde stanno cercando una propria via. Tra le direzioni legali delle big italiane più sofisticate in tal senso c’è Snam, che ha elaborato uno strumento di
vendor management finalizzato proprio a sviluppare criteri di valutazione oggettiva dei collaboratori esterni, tenendo conto per l’affidamento di nuovi incarichi dei risultati conseguiti dai consulenti in precedenza.
Che si tratti di rivedere le logiche che regolano il funzionamento interno alla direzione o quelle che presidiano alla scelta e al rapporto con i consulenti esterni, l’obiettivo richiesto ai general counsel dai loro clienti interni è sempre lo spesso: l’imperativo è meno costi e più innovazione.
COSTI INTERNI
Ufficio legale: una macchina da efficientare
Che si tratti di multinazionale, di grande società italiana o di piccola e media impresa, c’è un dato che taglia trasversalmente tutto il campione della GC Agenda: il carico di lavoro della direzione affari legali continua ad aumentare.
Se complessivamente dalla ricerca è emerso che nell’ultimo anno il volume di lavoro per gli in house ha subito un incremento nel 76,5% dei casi. Andando a scorrere le risposte del campione divise per cluster, sono le grandi aziende italiane quelle che hanno registrato l’aumento maggiore (90,9%), seguite dalle multinazionali (80%) e dalle Pmi (68,2%). Incremento focalizzato soprattutto in tre aree operative: compliance (60,4%), D.leg 231 (59,2%) e amministrativo (55,6%). Solo l’1% del campione,invece, ha dichiarato una flessione del carico di lavoro, che per il 22,2% degli intervistati è rimasto invariato.
A fronte di un lavoro in crescita, le campagne acquisti diminuiscono. Dopo anni di politiche di internalizzazione che hanno portato alcune direzioni ad assumere dimensioni sempre maggiori, nell’ultimo anno la compagine degli uffici legali è rimasta sostanzialmente la stessa nel 69,1% dei casi.
Là dove l’incremento maggiore di personale, con un aumento del 38,1%, è stato appannaggio delle grandi aziende italiane, che continuano a reclutare le nuove leve soprattutto dagli studi d’affari (57,1%).
Anche per le direzioni affari legali, quindi, è arrivato il momento
di tirare i remi in barca per razionalizzare la struttura, dovendo fare i conti con lo stesso problema affrontato dagli advisor esterni: il taglio dei costi fissi. E il contenimento dei costi non riguarda più soltanto il rapporto con l’advisor esterno, ma anche la gestione interna del lavoro. Sono poche le direzioni che prevedono di continuare a incrementare le squadre per controbilanciare, riducendone progressivamente la portata, l’incidenza dei costi legati all’utilizzo dei servizi legali esterni.
Per la maggior parte di loro, invece, è arrivato il momento di ottimizzare le risorse già in pancia. O di cercare soluzioni per risparmiare. È così che il 58,4% del campione dichiara di aver implementato forme alternative di collaborazione rispetto all’assunzione di nuovi professionisti. Questa esigenza è stata avvertita in particolar modo dalle multinazionali (70,5% dei casi); mentre il 60% delle grandi aziende italiane non ha in essere alcuna forma di collaborazione alternativa.
Al tradizionale professionista in secondment – il favorito per il 45,5% dei big italiani – si affiancano nuove figure lavorative sbarcate dall’estero, gli avvocati a contratto, che sono i prescelti dalle Pmi (56,5%). Mentre l’utilizzo di paralegal è la risposta delle multinazionali (36,4%) all’efficientamento dei costi relativi al personale. È a loro, infatti, che viene demandata la gestione dell’ordinaria amministrazione, come la revisione dei bandi, la stesura di contratti non particolarmente rilevanti e la gestione della documentazione antimafia.
Ma l’utilizzo di forme di collaborazione alternative non è l’unica via intrapresa dalle direzioni per razionalizzare i costi interni. Una delle strategie utilizzate dai clienti più sofisticati è stato l’avvio di processi di formazione interna destinati alle divisioni non legali. Due sono le ragioni principali alla base di questa scelta. In primo luogo, per cercare di mettere a punto sistemi preventivi, che aiutino a gestire soprattutto le voci di costo legate alle aree ad alto rischio, compliance e contenzioso in primis. La formazione, infatti, è mirata a far aumentare in tutte le aree aziendali il grado di consapevolezza della criticità di alcuni comportamenti. In questo modo si può stabilire italiani – da richiedere necessariamente un’esternalizzazione da parte della direzione affari legali. Fino ad oggi il recupero crediti è stato affidato al miglior offerente, a prezzi fissi sempre più bassi, magari controbilanciati da meccanismi di successo fee applicati una volta incassato il credito.
Oggi, però, si cerca la miglior quadra ai bilanci. Se dare il lavoro in outsourcing è funzionale soprattutto alla gestione dei flussi, l’outsourcing interno, che mette a disposizione dell’area legale risorse o divisioni aziendali meno cariche di lavoro, sembra una risposta ancora più efficace. Non c’è, infatti, miglior efficientamento di struttura e budget di quello a costo zero.
Certo, la riduzione dei costi è l’obiettivo di tutti gli in house, ma c’è anche chi va oltre e, nello scenario futuro, individua come sfida per la direzione affari legali quella di diventare un centro di profitto per l’azienda.
Tra questi, il General counsel di una multinazionale attiva nel comparto real estate, che, dopo aver sottolineato l’importanza di ridurre i costi, non esita a dichiarare la necessità di «creare valore, passando da una mera funzione di staff a quella di fornitore di servizi da vendere a terzi». Un progetto ambizioso, forse ancora avvenieristico per il mercato italiano, ma che rimarca ancora una volta il nuovo ruolo dell’in house nelle dinamiche aziendali: non solo parte, ma partner del business.
COSTI ESTERNI
Advisor esterno a immagine e somiglianza del cliente
L' esigenza di contenimento dei costi interni è una sfida che sta spingendo le direzioni affari legali ad ottimizzare ed efficientare le competenze e il lavoro. Ma, soprattutto, le sta portando ad accrescere la capacità di selezionare consulenti esterni in grado di offrire servizi a prezzi ragionevoli. Cercando il giusto equilibrio tra riduzione dei costi e mantenimento della qualità del servizio acquistato. Perchè una cosa è certa: il budget destinato alla consulenza legale difficilmente tornerà a crescere.
Il sondaggio GC Agenda realizzato da TopLegal indica che nella maggior parte dei casi è rimasto pressocchè invariato (53,2% delle risposte).
Mentre, analizzando le risposte per cluster, la maggiore flessione è registrata nelle grandi aziende italiane, che hanno dichiarato una diminuzione della cassa destinata alla consulenza esterna nel 38,1% dei casi. Guardando nello specifico le aree di destinazione del budget riservato agli studi, le tre in cui si riscontrano le percentuali maggiori sono: compliance (60,4%); D.leg. 231 (59,2%); e amministrativo (55,6%). Con differenze a seconda che si tratti di multinazionali, che hanno aumentato le spese in consulenze soprattutto nell’area amministrativa (83,3%), di Pmi italiane, per cui le esigenze di supporto esterno sono registrate in particolar modo sulle tematiche connesse alla compliance (65,4%); o delle grandi aziende italiane, che segnano un incremento soprattutto nell’m& a (90,9%). Un m&a, però, particolare, in quanto non più legato solo al mercato domestico ma all’internazionalizzazione dell’attività.
Registra, invece, un sostanziale stallo rispetto agli anni precedenti il budget destinato al contenzioso al riguardo di cui va fatto un discorso a parte. Nonostante i servizi legati alla tutela giudiziale siano in aumento e ancora irrinunziabili, i relativi costi non crescono in maniera proporzionale, in quanto aumentano i tentativi di gestirli e ridurli, per esempio, con il maggior utilizzo di formule preventive, il ricorso a transazioni o a sistemi alternativi di soluzione delle controversie. Mentre, in parallelo, si riducono i costi esterni attraverso un processo di fidelizzazione del legale esterno, con conseguente concentrazione degli incarichi in capo a pochi studi che riescono cos. ad applicare formule caratterizzate da compensi predeterminati e meno quelle a tariffazione oraria. Mentre il budget diminuisce o rimane invariato, il panel tende a espandersi. Del 79,3% degli intervistati che dichiara di avere un panel, il 36,9% nell’ultimo lustro lo ha allargato a più studi. Quelle che registrano il maggior numero di consulenti di fiducia sono le big italiane, che hanno nel 43,8% dei casi come advisor di riferimento una forbice compresa tra i 10 e i 20 studi. Mentre le Pmi nel 43,3% dei casi ne hanno meno di cinque. Per le multinazionali, i panel nel 56,3% dei casi comprendono tra i cinque e i dieci studi.
Guardando le risposte fornite da chi ha dichiarato di aver ampliato il panel di riferimento, la maggior parte motiva la decisione facendo riferimento agli spostamenti in seno al mercato legale italiano. Sono in pochissimi, infatti, quelli che hanno scelto nuovi consulenti per la neccessità di acquisire expertise per l’insorgere di nuove problematiche nel business o di ridurre i costi del servizio. Invece, per la maggior parte l’addizione di nuovi studi di riferimento è dovuta principalmente alla parcellizzazione dell’offerta.
Gli spin off dagli studi legali che continuano a movimentare il mercato, contribuendo alla sua frammentazione, pongono i clienti di fronte al bivio se seguire il professionista di fiducia nella nuova realtà da lui fondata o rimanere clienti dello studio. Ebbene, dalle risposte fornite nel corso del sondaggio emerge come la maggior parte decida di includere entrambi gli advisor nel panel, effettuando poi la scelta sulla base principalmente della variabile economica. Ed è proprio nella variabile economica che si esaurisce la percezione di innovazione di servizio. Secondo il 53,3% dei General counsel il consulente esterno non ha introdotto innovazioni.
Le più rigide sono le grandi aziende italiane, in cui la percentuale
sale al 72,7%. Là dove viene percepita, l’innovazione si limita ad essere indicata nell’inserimento di formule economiche alternative, come proposte di bonus/malus, success fee e abort fee o prezzi parametrati sulla base della quantità di lavoro preparata in house. In sostanza, quindi, l’innovazione non è misurata sulla base della progettualità perchè il rapporto advisor-cliente sembra ancora giocato principalmente sul filo del prezzo del servizio più che del suo valore.
Guardando alla tipologia di rapporto economico, che per il 69,4% degli intervistati ès tato modificato dalla crisi economica, le tariffazioni sulle quali si sta assestando l’incontro tra domanda e offerta sono soprattutto il forfait nello stragiudiziale (40,8%) e la fee con cap nel giudiziale (32,4%). Analizzando i dati nello specifico, nella consulenza stragiudiziale il forfait è il preferito dalle italiane, sia che si tratti delle grandi aziende (50% dei casi), sia che si tratti di Pmi (40,4%); mentre le multinazionali scelgono soprattutto la fee con cap(39,1%). Nella consulenza giudiziale, invece, multinazionali e big italiane prediligono la parcella con cap, rispettivamente nel 37,5% e 33,3% dei casi. Mentre per le Pmi il rapporto economico più diffuso è il forfait (35,6%).
Se sui costi può sembrare più vicino il punto d’incontro tra domanda e offerta, la quantificazione del valore aggiunto fornito dal consulente esterno è ancora aleatoria. Alla domanda intorno ai servizi legali che in futuro saranno considerati a maggiore valore aggiunto, secondo la maggior parte dei General counsel quelli che presuppongono una conoscenza approfondita dell’azienda, del suo business e della sua organizzazione. Quelli, in altre parole, che vedranno l’advisor esterno diventare partner di business del cliente. In quest’ottica acquista sempre più valore la capacità dello studio legale di agire in base a una logica preventiva così come la proattività nella semplificazione delle soluzioni, l’attività di formazione e l’aggiornamento diretto ai professionisti in house e di outsourcing di attività di base.
A parità di competenze e fee concorrenziali, infatti, i clienti dichiarano di privilegiare i legali esterni che dimostrano di essere partner di business, riuscendo a replicare la struttura e l’approccio dell’azienda.
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