Il think thank rivolto alle professioni intellettuali, VeraSage Institute, sul suo sito elenca 23 motivi per cui la rendicontazione oraria sarebbe dannosa per consulenti e clienti. Generalmente, afferma la società di consulenti statunitensi, la tariffa oraria crea incentivi sbagliati mettendo il consulente in conflitto con il cliente. In particolare, penalizza il consulente produttivo senza favorire l’uso delle tecnologie, e accantona qualsiasi disciplina di mercato finalizzata ad aumentare l’efficienza. Si condiziona in questo modo tutta l’attività e il percorso professionale – dall’ottenimento del mandato alla promozione e ai compensi dei consulenti – indipendentemente dal valore che tale fatturazione possa creare. Concentrandosi, pertanto, esclusivamente sulle ore da fatturare si ostacola ogni innovazione e dinamismo della professione, andando a scapito dello spirito imprenditoriale. All’interno dello studio, la tariffa oraria favorisce altresì la proliferazione della burocrazia nonché le figure chiamate a gestirla: i vari funzionari, ragionieri e neofiti dei costi. Tuttavia, i mali recati ai clienti sono altrettanto se non più seri. La tariffa oraria costringe il cliente a pagare le inefficienze del consulente e, dato che non si può conoscere il prezzo finale del servizio che viene acquisito, il cliente è inoltre costretto ad assumersi tutti i rischi della transazione. La fatturazione oraria sancisce inoltre un sistema di sussidi attraverso il quale la formazione degli avvocati meno esperti è a carico del cliente, come lo sono anche i costi e le inefficienze di produzione dello studio legale.
Nonostante tutti questi inconvenienti, la tariffa oraria ha sempre avuto un ruolo dominante per le professioni intellettuali. Il motivo è semplice: la tariffa oraria fornisce un’unità di misura facile da comprendere per chi l’acquisterebbe e tutti sono abituati a utilizzarla. I clienti dispongono in tal modo di una misura oggettiva e analizzabile del lavoro effettuato, mentre per gli studi la tariffa oraria consente di monetizzare di più a discapito degli interessi dei primi.
Durante gli anni di mercato florido, gli studi assumevano sempre più professionisti come unico modo per aumentare il fatturato. Ma la crescita interna richiedeva un aumento del numero di ore da fatturare per raggiungere il pareggio. Tuttavia, più aumentava l’efficienza dello studio, meno ricavi si generavano. Per aumentare il fatturato, si ricorreva di nuovo ad una politica espansiva e il meccanismo così si autoalimentava. Fin quando il mercato tirava, gli effetti negativi della spirale generata dal meccanismo perverso della tariffa oraria si attenuavano.
Il cortocircuito, come si sa, è avvenuto con la crisi economica a partire dal 2008. L’incontro tra aziende costrette a rivedere costi ed efficienza e studi legali irriducibili che avevano fatto pressoché nulla per la propria ristrutturazione creava un divario insostenibile. Il risultato è stato la pesante normalizzazione del comparto legale e il ridimensionamento del potere degli studi legali. Da questo ribaltamento sono scaturite nuove formule negli accordi tra consulenti e clienti per allineare la spesa legale alla forte revisione dei costi e i tagli lineari al budget imposti dalle aziende. Questi accordi, declinati a favore dei compensi alternativi, si sono moltiplicati negli ultimi anni.
Eppure, nonostante la notevole spinta riformatrice arrivata con la crisi economica, è come se la transizione avvenuta nel comparto legale, non appena iniziata, si fosse già bloccata. I clienti hanno ottenuto una conquista importante ma del tutto circoscritta. Una volta strappato il ribasso dei prezzi, è finita l’attenzione sull’efficienza e sui processi di lavoro degli studi legali i quali, da parte loro, hanno semplicemente compiuto una ritirata strategica che ha lasciato il loro approccio di fondo immutato.
Per questo motivo, sia gli studi legali che le imprese hanno ancora molta strada da fare prima che tali accordi possano essere pienamente vantaggiosi e restano problemi fondamentali ancora da affrontare. In particolare, per gli studi legali i compensi alternativi continuano a rappresentare un compromesso indesiderato imposto dai clienti. Troppo spesso, i consulenti esterni fanno semplicemente un passo indietro di fronte alla richiesta del cliente senza ragiona re sull’efficienza della propria organizzazione né sulla propria redditività. Al contrario, molti studi legali continuano tuttora a comportarsi come se nulla fosse, reclamando una diversità rispetto alla concorrenza – questa eccezionalità si declina in vari modi ma è soprattutto riconducibile alla presunta « qualità » che sarebbe offerta – e questo nonostante l’impossibilità in cui si trovano i clienti nel poter riscontrare una distinzione nell’offerta dei servizi legali.
Qual è il motivo di questa resistenza? In parte, questo atteggiamento è un retaggio del passato, quando gli studi esercitavano una forza contrattuale notevole durante gli anni di forte crescita quando era possibile raggiungere fatturati e utili smisurati. La crescita è ora assai diminuita ma rimane inalterato un modello di business su cui regge tutta la struttura dei compensi ai soci. In altre parole, la tariffa oraria consente maggiori guadagni e mancano incentivi per abbandonarla.
I cambiamenti solo limitati e superficiali introdotti dagli studi legali al loro interno non solo penalizzano gli stessi studi ma soprattutto i loro clienti. Nell’assenza di maggiori efficienze dell’offerta, il beneficio per il cliente è di conseguenza minimizzato. Per le imprese i compensi alternativi sembrano garantire quasi esclusivamente una programmazione della spesa – un bene, senza dubbio – ma il risparmio rimane contenuto. Per i clienti, questo esito sembra essere soddisfacente: quando la prevedibilità della spesa prevale sul risparmio, si è disposti ad accettare economie minori per assicurare un tetto massimo alla spesa legale durante un periodo di tempo definito.
In ultima analisi, quindi, sia le aziende che gli studi legali difficilmente hanno la possibilità di rendere gli accordi sui compensi alternativi pienamente e reciprocamente vantaggiosi. Anzi, si protrae in realtà una situazione per cui i compensi alternativi fungono semplicemente da « sconti » alla tariffa oraria che continua ad essere la base e l’unità di misura per un approccio creativo al pricing, nonostante sia stata in gran parte superata dagli accordi alternativi. Se alla base degli accordi forfait vi è sempre e comunque la tariffa oraria, il motivo risiede nella difficoltà di creare un metro oggettivo alternativo. Parametrare il prezzo del lavoro alle ore significa semplificare e ridurre le varianti in gioco. E qui si torna al punto di partenza.
I dati raccolti da TopLegal dimostrano che l’aumento sensibile del numero di soci equity nei primi 25 studi legali per fatturato non ha frenato l’erosione degli utili, diminuiti del circa 20 per cento negli ultimi cinque anni. Con la loro dipendenza della tariffa oraria, gli studi perdono l’opportunità di ridurre i costi ai clienti, privandosi così della possibilità di assicurarsi una maggiore efficienza interna per migliorare la propria redditività. Ma se i clienti vogliono ottenere risparmi significativi, dovranno insistere in un certo modo sulla riprogettazione dei meccanismi interni degli studi (e forse anche aiutarli a farlo). Altrimenti, si continuerà a giocare una partita per cui se talvolta uno guadagna, perde l’altro. Partita alla lunga insostenibile per tutti gli attori.
Compensi alternativi / Scenario