Indici di sviluppo in crescita per le medie imprese familiari italiane attive nel manifatturiero. L’ultima analisi di Mediobanca e Unioncamere (la diciassettesima edizione dell’indagine annuale “Le medie imprese industriali italiane”) fotografa un comparto che sta aumentando il proprio peso sulla manifattura italiana, grazie al traino del made in Italy.
Negli ultimi 21 anni, tra il 1996 e il 2017, il valore aggiunto di queste imprese è infatti cresciuto dal 12,4% al 18,6% del totale manifatturiero, il fatturato dal 14,6% al 19,8%, l’export dal 15,6% al 18,7%. Si tratta di 3.462 imprese, collocate soprattutto in Lombardia, Piemonte e Liguria, ma ben diffuse anche in Veneto ed Emilia Romagna. Inoltre, la base produttiva delle medie imprese resta prevalentemente in Italia. Il rapporto tra manifatturiere estere e italiane è passato dal 14,6% (una straniera ogni sette domestiche) al 26,2% (una ogni quattro). «L’off-shoring — rileva lo studio — è stato intenso fino al 2012, ma da allora la spinta alla delocalizzazione si è esaurita e le medie imprese aggrediscono i mercati esteri più con presidi commerciali e di assistenza postvendita che non con impianti di produzione. Inoltre, le basi produttive estere non sono necessariamente collocate in Paesi a basso costo del lavoro: il 49% si trova nell’Unione Europea, il 10% nel Nord America, il 54% in Paesi in via di sviluppo, il 46% in economie mature».
In relazione al contributo al valore aggiunto, si sono contratti settori come i beni per la persona e la casa e la metallurgia, mentre tra le attività più brillanti si annoverano la meccanica e l’alimentare. In evidenza il farmaceutico-cosmetico che, crescendo dal 10,5% al 14,9% in termini di contributo al valore aggiunto, diventa rilevante come l’alimentare e si afferma come nuova eccellenza italiana.
La reazione alla crisi
Ma come si sono comportate le medie imprese in particolare negli ultimi dieci anni segnati dalla crisi? L’analisi di Mediobanca e Unioncamere mostra che l’aggregato ha registrato risultati a doppia cifra in termini di progressione delle vendite, effervescenza della componente estera, capacità di creare ricchezza e occupazione. «Se ne evince — rilevano gli analisti — uno sforzo di adeguare le competenze a contesti competitivi e commerciali sempre più sfidanti, preservando al contempo la base produttiva». Per l’analisi di questi dieci anni lo studio ha fatto riferimento a un insieme chiuso di 1683 medie imprese, ossia quelle imprese che hanno preservato le proprie caratteristiche di media dimensione durante il decennio, e che come tale, realizza performance segnate dal survivorship bias (ovvero il “pregiudizio” legato alla sopravvivenza dell’azienda).
Anche a livello di solidità patrimoniale l’analisi evidenzia un rafforzamento della solidità nel tempo, in particolare con riferimento a due aspetti: da un lato, la consistenza della dotazione di mezzi propri più che sufficienti a coprire l’impiego nell’attivo immobilizzato; dall’altro, debiti finanziari in grado di essere rimborsati in maniera ordinata. Non solo. Lo stesso modello di scoring sviluppato da R&S-Unioncamere indica che nel 2016 il 74,1% delle medie imprese ricadeva nella classe investment grade, il 23,4% in quella delle imprese intermedie e solo il residuo 2,5% in quella delle gravemente problematiche.
Si nota che delle 1683 medie imprese componenti l’insieme chiuso, 1578 sono esportatrici e 105 vendono solo sul territorio nazionale operando, per lo più nel settore alimentare. Sono soprattutto le imprese esportatrici ad aver permesso il recupero dei livelli pre-crisi incrementando, tra il 2010 e il 2016, le vendite del 23%, il valore aggiunto del 30% e l’occupazione del 12,6% (contro rispettivamente i decrementi pari a 27,5%, 25,8% e 29,3% delle non esportatrici).
Le discontinuità della crisi
A fronte di un recupero delle grandezze assolute rispetto ai livelli pre-crisi, non vanno trascurati alcuni elementi di discontinuità emersi e, precisa lo studio, discontinuità «per molti aspetti non ancora riassorbita a tutto il 2016». La prima evidenza si ha esaminando la redditività industriale (il Roi): il suo livello medio tra 2007 e 2008 è stato pari al 9,6% per poi cadere all’8,1% tra 2009 e 2016. Ulteriore indicazione arriva dalla redditività netta (Roe) ridottasi dal 6,4% del 2007-2008 al 6% tra il 2009 e il 2016. A questo proposito l’analisi segnala che, a partire dal 2013, gli indicatori di redditività hanno recuperato in misura significativa (il Roi è per esempio salito al 10% nel 2016 rispetto al 6,1% del 2009 e il Roe al 9,9% dal 2,3% del 2009). «In taluni casi — si legge nello studio — la redditività netta media è passata addirittura a valori negativi: si tratta della ceramica e dei prodotti per l’edilizia (da 1,5% a -0,4%). Le note positive provengono dalla lavorazione della pelle e del cuoio (da -1,1% a 7,3%), dal comparto orafo (da -1% a 5,2%), dal chimico-farmaceutico (da 6,1% a 9,2%) e dall’alimentare (da 3,1% a 6,1%). Degno di nota il recupero del tessile (da -4,6% a 3%)».
Tassazione in calo ma sopra le grandi imprese
Le performance delle medie imprese familiari attive nella manifattura sono quindi definite dallo studio “distintive”, con la conferma che arriva dal confronto con l’andamento del campione complessivo delle imprese manifatturiere italiane. Un elemento frenante che ha gravato sui pur positivi risultati ha riguardato la fiscalità che rimane, si legge nell’analisi «penalizzante, con un tax rate che in media ha toccato il 32,3% nel 2016, ovvero circa cinque punti sopra quello che emerge dai bilanci dei gruppi maggiori (27,6%)». D’altra parte, in questi anni gli interventi legislativi in tema di fiscalità di impresa, hanno portato ad una progressiva riduzione del tax rate effettivo gravante sulle medie imprese, caduto dal 44,7% del 2007 al 32,3% del 2016. I segnali di miglioramento consistono in un peso dell’Irap sceso sotto il 20% delle imposte complessive (il resto è Ires), 10 punti in meno dal 30% degli anni precedenti il 2013. Il tax rate si è così alleggerito di circa 8 punti dal picco del 40% nel 2011. «La fascia di imprese più tartassata, quella delle imprese labour intensive a bassa marginalità — rileva lo studio — sostiene ancora un’imposizione pesante (48% circa), ma negli anni precedenti arrivavano a versare al fisco oltre il 90% dei propri utili. Se le medie imprese avessero beneficiato dal 1996 del minore carico fiscale dell’ultimo anno, avrebbero risparmiato circa 16 miliardi di imposte, pari al 22% del proprio patrimonio».