Sorin

LA VERSIONE DI BRIAN

Brian Sheridan, general counsel nordirlandese della multinazionale biomedicale italiana, racconta la sua battaglia culturale contro la gerontocrazia e i pregiudizi intorno ai giuristi d’impresa

03-02-2014

LA VERSIONE DI BRIAN

« Quando sei il più giovane di ben nove figli, l’ar­te della negoziazione la impari da bambino, a tavola, quando devi sgo­mitare per pranzare. Soprattutto, se hai a che fare con tre fratelli che intraprenderanno la tua stessa carriera ». Lo racconta Brian Sheridanquarantaduenne direttore degli affari legali di Sorin, multinazionale del settore biomedicale di origini piemontesi, conosciuta per la produ­zione di valvole cardiache.

Il general consuel Sheridan è un ex enfant pro­dige – o forse lo è ancora, considerando le me­die italiane – con una carriera decennale in una multinazionale già alle spalle. Originario dell’Ir­landa del Nord, la passione per la legge e per il business l’ha respirata sin dalle mura di casa sua. Ha studiato giurisprudenza a Londra, e con in ta­sca un LL. M. dell’University College e un diplo­ma in Competition Law del King’s College se n’è andato a Bruxelles. Era deciso a lavorare a tutti i costi nel campo del diritto europeo, e voleva farlo nel posto migliore. Poi, ha scritto un libro sulla regolamentazione del settore biomedicale, il primo pubblicato su questa materia. E dopo una breve ma importante esperienza nello studio americano Oppenheimer Wolff & Donnelly dove fu promosso a socio, è arrivata l’assunzione nel­la direzione affari legali di Sorin, a soli 32 anni, grazie alla segnalazione di un general counsel più anziano di un’azienda concorrente.

Era il 2004 e Brian Sheridan ha ancora gli oc­chi che brillano quando ricorda l’offerta di lavo­ro: « Era una cosa meravigliosa. Mi hanno dato carta bianca, e il bello è che ce l’ho ancora ». In particolare, Sheridan chiese – e ottenne – come condizione imprescindibile del suo ingaggio il pieno potere di assumere e licenziare i con­sulenti legali esterni dell’azienda (« Come fai a gestire gli studi legali se non hai la possibilità di esonerarli dall’incarico? »).

L’azienda aveva superato una scissione dal gruppo Snia ed era appena stata quotata in Bor­sa, non c’era tempo da perdere. Bisognava crea­re una multinazionale, cambiare in pochissimo tempo cultura aziendale e persone, e creare da zero una direzione affari legali. Non bastava trovare le persone giuste, era necessario capire cosa far fare agli avvocati che sarebbero entrati in Sorin, decidere quali sarebbero state le loro funzioni. L’azienda allora decise di scommettere sul talento del giovane avvocato nord irlandese, prendendosi tutti i rischi del caso. 

Un modello internazionale 

Dieci anni dopo, Sheridan è ancora lì, a capo di un dipartimento composto da diciassette per­sone, di cui nove donne, con un’età media di 33 anni. È riuscito a creare una direzione legale con una cultura internazionale e meritocratica e un ruolo strategico per l’azienda. « Alcune direzioni legali si occupano prevalentemente di generare contratti, ciò che invece contraddistingue il no­stro lavoro, e che lo rende unico nel panorama dei giuristi d’impresa, è la partecipazione alle strategie di business aziendale, anche a quelle che riguardano l’espansione geografica ». Il gene­ral counsel di Sorin siede, infatti, nell’executive leadership team, l’organo che gestisce la società e che è composto dal presidente e da altri nove componenti (amministratore delegato, Ceo, Ge­neral counsel, Responsabile delle risorse umane, Responsabile operation e manufacturing e sin­goli capi delle altre business unit).


Dalla contrattazione alla proprietà intellettua­le, il team di Sheridan ricopre tutti i classici ruoli di una direzione affari legali (tranne il fiscale) e su certi aspetti i suoi avvocati diventano pietre angolari della strategia di business internazionale messa in campo dall’azienda. « È facilissimo tra­sformare le skills di un avvocato internazionale in ritratto 

strategia aziendale; basta saperle utilizzare anche al di fuori di un contesto strettamente legale. Un discorso che vale specialmente quando si lavora in un mercato iper-regolamentato come quello bio­medicale » sottolinea Sheridan. Un esempio è pro­prio il settore della tutela brevettuale, in cui tutte le operazioni svolte dalla direzione legale (vendita, licensing, negoziazione e interazione con il diritto antitrust) acquistano un valore strategico fonda­mentale per la multinazionale.

C’è poi il programma di compliance ( premia­to al TopLegal Corporate Counsel Awards lo scorso luglio, ndr) fiore all’occhiello della Sorin e del suo general counsel. Per Sheridan il merito del successo è tutto delle persone che sono state scelte e della cultura internazionale che caratte­rizza la società: « Sono tre gli elementi vincenti del nostro lavoro: puntiamo alla sostanza molto più che alla forma, lavoriamo con la massima tra­sparenza e abbiamo costituito un ottimo team di professionisti ». Per Sheridan l’esperienza e l’età non vanno necessariamente di pari passo (come è stato nel suo caso), contano molto di più la fles­sibilità, la passione genuina per il proprio lavoro e l’adesione a particolari valori personali. « I più giovani sono anche i meno cinici. Li preferisco per questo motivo. Ho più fiducia in loro che in professionisti molto più navigati » sottolinea Sheridan. E con soddisfazione, conclude: « Non sono l’uomo più popolare in Sorin, ma sono certo che tutte le mattine i componenti del mio team sono felici di venire a lavorare in azienda. Tutto questo, mi porta ad essere più orgoglioso dello sviluppo professionale del mio team ». 

Limiti e pregi italiani 

« Non scegliamo studi legali, ma avvocati. E gli italiani come avvocati d’impresa sono i mi­gliori, basta cercarli bene ». La premessa è delle più ottimistiche, ma Brian Sheridan è lo stesso che appena assunto come general counsel in Sorin licenziò ottanta studi legali colpevoli di non essersi adeguati subito alla nuova cultura aziendale. L’avvocato nordirlandese è un fiume in piena quando parla del mercato legale italia­no e non risparmia le critiche. Uno dei proble­mi che riscontra è la disomogeneità all’interno degli studi. Per questo motivo, il nome dello studio legale comincia a contare sempre meno rispetto al singolo professionista.

C’è un problema culturale alla base, special­mente quando si tocca la questione dell’età. Il team di Sheridan è composto da giovani avvo­cati che, nemmeno trentenni, si confrontano con professionisti che spesso hanno il doppio della loro età. Lo fanno con competenza e genuinità, dall’altro lato non trovano sempre la stessa aper­tura mentale. « Molti studi non hanno ancora capito come funziona la direzione legale della nostra azienda. Dovrebbero finalmente capire che il loro cliente è il general counsel, non il pre­sidente della società o l’amministratore delegato. Chi si rivolge direttamente a loro, saltando a piè pari il mio ufficio, non lavorerà mai con Sorin », dice chiaramente Sheridan, usando la parola « le­altà » proprio per sottolineare l’importanza di saper gestire al meglio il rapporto tra lo studio legale esterno e la funzione legale dell’impresa.

« L’in-house counsel non è un infelice e non è assolutamente vero che non ha nessun potere. Anzi, la scelta di servirsi della consulenza di uno studio legale esterno piuttosto che di un altro è una delle decisioni di business più importan­ti che un general counsel possa prendere per la propria società ». Sono questi i miti da sfatare, i pregiudizi che secondo Sheridan colpiscono non solo gli avvocati italiani, ma anche quelli degli studi internazionali.

Tornando all’analisi del mercato legale nostra­no, secondo il general counsel di Sorin, gli ita­liani hanno ancora problemi con la lingua, non tutti parlano inglese e in molti non sono abituati a gestire un cliente straniero. Sheridan fa l’esem­pio del settore dell’intellectual property in cui ha riscontrato diverse mancanze: « Gli studi italiani sono molto specializzati nella fase di preparazio­ne e concessione di un brevetto, ma non sono poi in grado di gestire autonomamente un eventuale contenzioso internazionale che potrebbe però facilmente verificarsi. È una grossa lacuna che gli studi americani non hanno. I patent attorney riescono a gestire a 360 gradi tutto ciò che gira intorno alla tutela brevettuale ».

Gli italiani, però, a detta dell’avvocato nordir­landese, rispetto ai colleghi anglosassoni hanno dalla loro una conoscenza molto più approfondi­ta dell’economia e di tutto ciò che gira intorno ad un’impresa pur non essendo strettamente di ambito giuridico. Il consiglio che Sheridan sente di dare agli studi è quello di credere di più nelle nuove generazioni di avvocati. Lui già lo fa. 

Articolo pubblicato in TopLegal ottobre 2013

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